venerdì 20 marzo 2020

Diamanti grezzi (J. e B. Safdie 2019)

I fratelli Josh e Benny Safdie girano il loro secondo lungometraggio come registi - dopo Good Time (2017) - e raccontano un'ordinaria quanto rocambolesca storia di malavita, commercio di diamanti, esaltazione e fallimento.
Il film, in cantiere dal 2009 e in parte sbloccato grazie all'intervento produttivo di Martin Scorsese, è tutto in questa parabola narrativa senza sosta, dal ritmo incalzante e che non permette allo spettatore di rilassarsi mai, ma per la quale, probabilmente, sarebbe bastato un minutaggio ben meno ampio delle due ore (trailer).
I due registi conoscono il mestiere come pochi altri: rappresentanti del cinema indipendente a stelle e strisce, hanno infatti lavorato anche come sceneggiatori, montatori, attori, direttori della fotografia e produttori.

Il film si apre nel 2010, con un rapido antefatto ambientato in una miniera in Etiopia, in cui viene trovata una roccia con i diamanti grezzi del titolo, per poi passare a New York, dove un medico sta facendo una biopsia che diventa l'occasione per un'ellissi tra la caverna e i meandri del corpo umano.
Quel frammento di pietra arriverà nelle mani di Howard Ratner (Adam Sandler) gioielliere di Mahattan col vizio delle scommesse sportive, e nel suo negozio di preziosi, dove si ritroverà pressoché costretto a prestarlo al cestista Kevin Garnett, campione dei Boston Celtic, che in cambio gli offrirà il suo anello del titolo NBA.
Da questo incipit origineranno tutte le traversie della storia, con l'inserimento della malavita, la vendita all'asta del prezioso opale incastonato nella roccia, le scommesse sulla successiva partita dei Celtics.
A tutto ciò, si unisce la complessa vita privata di Howard, separato dalla moglie, Dinah (Idina Menzel), ha una relazione con Julia (Julia Fox), che lavora nel suo negozio, ma anche qui le complicazioni sono dietro l'angolo.
I Safdie sembrano volerci ricordare che ad ogni punto di massima esaltazione adrenalinica corrisponda un tracollo, in una continua altalena senza sosta.
Il personaggio di Howard, peraltro, è in parte esemplato sulla figura del padre dei due cineasti, grande tifoso dei New York Knicks e che per tanti anni ha lavorato nel Diamond District di Manhattan.
Tra le migliori battute di una buona sceneggiatura, che i Safdie hanno scritto insieme a Ronald Bronstein, c'è sicuramente quella in cui Howard, ebreo praticante, e in quel momento in preda alla disperazione per una vita sempre in salita, guarda il tatuaggio col suo nome che Julia, per far pace con lui, si è fatta fare sul sedere e, tra le lacrime, non riesce a dire altro che: "non puoi neanche essere sepolta con me adesso".
Da segnalare, infine, la colonna sonora (ascolta), composta in stile new age da Oneohtrix Point Never, pseudonimo di Daniel Lopatin, che si è dichiaratamente ispirato a Isao Tomita, Tangerine Dream e Vangelis, e dal duo newyorchese anni '70-'80 Emerald Web, cercando nella biblioteca del sintetizzatore di Moog e Omnisphere "suoni malinconici terrosi che avevano una svolta cosmica". E c'è spazio anche per un brano di Gigi d'Agostino, tra i massimi esponenti della dance italiana degli anni '90-2000, con L'amour toujours.


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