lunedì 16 marzo 2020

Le amiche (Antonioni 1955)

Liberamente tratto dal romanzo di Cesare Pavese, Tra donne sole (1949), il quinto film di Michelangelo Antonioni, che affronta una storia di donne e di uomini della borghesia torinese attraverso una profonda indagine psicologica e il tema a lui caro della precarietà dei sentimenti, si aggiudicò il Leone d'argento alla 16° Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (trailer).
La pellicola si apre, sui titoli di testa, con una lunga e lenta panoramica a volo d’uccello sulla città di Torino che si chiude, fatalmente, sulla Mole Antonelliana, la più identitaria delle emergenze architettoniche dello skyline torinese.
Tutte le vicende narrate, infatti, si svolgono nel capoluogo piemontese, dove Clelia (Eleonora Rossi Drago) è tornata per aprire una succursale della casa di moda per cui lavorava a Roma.
Con l'aiuto di Carlo (Ettore Manni), innamorato di lei, ma appartenente ad una classe sociale inferiore, da cui Clelia si è ormai distanziata, la donna sta cercando di portare avanti i lavori nell'atelier, nonostante le lungaggini dell'architetto Cesare Pedoni, interpretato da Franco Fabrizi, anche questa volta, come ne I Vitelloni (Fellini 1953), nel suo ruolo più tipico, quello dell'uomo inaffidabile, vanaglorioso e con l'istinto da playboy.
In pochi giorni Clelia si ritroverà in un giro d'amicizie variegato e pieno di questioni aperte, su cui troneggia Momina (Yvonne Furneaux), che sembra giudicare tutti dall'alto. Tra queste, spicca il difficile e squilibrato matrimonio tra Nene (Valentina Cortese), donna di successo, e Lorenzo (Gabriele Ferzetti), pittore fallito che invidia la moglie e trova conforto in Rosetta (Madeleine Fischer), che ritrae in un dipinto decisamente sironiano; quest'ultima, affetta dal mal di vivere e poco compresa dagli altri; la più emancipata e libera, Mariella (Anna Maria Pancani), fidanzata, ma convinta che ogni tanto bisogna tradire per tornare più innamorata di prima, "che ci posso fare, sono fatta così". 
L'ambientazione torinese consente un continuo gioco alla ricerca delle esatte location (già in parte pubblicata per IFM). La centralissima piazza San Carlo, per esempio, fa da teatro all'incontro di Clelia con Carlo, cui poco dopo si aggiunge l’architetto Pedoni, a cui sono affidati i lavori nell'atelier, che ha sede nell'adiacente via Roma, sotto il portico con le colonne in granito, al civico 282.
Caro, Cesare e Clelia a piazza San Carlo
I tre si ritrovano all'interno del Caffè Torino, locale storico sulla piazza principale della città, luogo di incontro degli intellettuali in epoca risorgimentale, che ancora oggi conserva il suo arredamento con statue, marmi pregiati e stucchi. Antonioni riprende il famoso bar-ristorante sia all'interno, con i suoi sfarzosi specchi e lampadari, sia all'esterno, per poi seguire Clelia che cammina sotto i portici dopo aver discusso animatamente con l’architetto. La donna viene seguita da quest’ultimo, che cerca di rabbonirla, e da Carlo: dietro di loro la macchina da presa mostra la piazza, di cui si riconoscono i palazzi porticati e soprattutto, al centro, il monumento equestre a Emanuele Filiberto di Savoia (Carlo Marochetti, 1838), con il duca che ripone la spada nel fodero dopo la vittoria di San Quintino del 10 agosto 1557.
Clelia e Carlo a piazza don Paolo Albera
Clelia e Carlo, nella parte centrale della storia, per scegliere i mobili con cui arredare l’atelier, vanno insieme in un negozio sotto i portici di piazza della Repubblica e, usciti di là fanno una passeggiata nella zona limitrofa, dove Clelia descrive a Carlo, non senza una certa vena malinconica, il quartiere in cui è cresciuta, mostrandogli cortili e palazzi, fino ad arrivare nella vicina piazza don Paolo Albera.
Ci si sposta poco più a sud, invece, dopo il successo della prima sfilata, per la cena che coinvolge gran parte dei personaggi in un ristorante in via Conte Verde, all'incrocio con largo IV Marzo.
Il Po è una presenza costante in tutta la pellicola, talvolta lo si vede solo di sfuggita, dalle finestre di un ristorante, in altre fa da fondale a sequenze importanti, come quella in cui Rosetta confessa il suo amore a Lorenzo. La scena si svolge in corso Achille Mario Dogliotti, a un passo dalla riva del fiume.
Lorenzo e Rosetta a piazza Cavour
I due amanti, in un’altra sequenza, camminano nei giardini di piazza Cavour, fermandosi davanti ad un piccolo chiosco di dolciumi e al monumento in onore di Carlo Felice Nicolis, conte di Robilant, politico e diplomatico risorgimentale, opera di Giacomo Ginotti (1896-1900). Sullo sfondo, il palazzo che fa da fondale alla scena è oggi più alto di quanto lo fosse nel 1955, grazie all'aggiunta di due piani.
Anche il suicidio di Rosetta, il cui malessere è al centro di gran parte della vicenda, avverrà proprio gettandosi nel fiume, anche se la macchina da presa racconta solamente il momento in cui il suo corpo viene ripescato lungo i Murazzi del Po, riconoscibili dalle grandi scalinate che colmano il dislivello con il soprastante lungo Po Armando Diaz.
La scena dei murazzi del Po
È curioso, invece, notare che il primo tentativo di suicidio della ragazza, avvenuto al di fuori della narrazione, all'inizio del film, ne aveva causato il ricovero in ospedale, in una sequenza girata nell'ospedale San Filippo Neri sulla via Trionfale a Roma.
Altrettanto lontano da Torino, infine, si svolge la fondamentale sequenza della gita al mare, significativa parte aggiunta da Antonioni e splendidamente scritta in sceneggiatura da Suso Cecchi d’Amico. Il luogo non viene precisato, ma quello che i personaggi raggiungono con un breve spostamento in treno, in realtà è il mar Tirreno all'altezza della città pontina di Sabaudia. Tantissime le battute da ricordare di un film così ben scritto. Clelia capisce sin dal primo momento i difetti di Cesare, a cui dice: "per avere dei figli, prima cosa ci vuole il senso di responsabilità"; ed è sempre lei, a sintetizzare la differenza tra il modo di vestire delle signore torinesi e di quelle romane: "A Roma le signore vogliono spendere poco e sembrare ricche e qui invece vogliono sembrare dimesse, semplici... diplomazia sociale". Clelia è anche l'unica che sembra poter dare una mano a Rosetta, e sul treno di ritorno dal mare le due hanno un bel confronto fatto di riflessione dolce amara sul senso della vita: alla ragazza depressa, che pensa "perché dovrei vivere? Per decidere che vestito mettere?", Clelia risponde con "la vita è fatta di tante cose, belle o brutte d'accordo, ma sono tante e importanti: ci sono gli affetti, c'è l'amore [..] sono poche le persone che possono permettersi di bastare a se stesse, non possiamo fare a meno degli altri, è inutile farci illusioni".
Momina, invece, è sempre molto formale e ogni sua esternazione è un misto di grettezza e bigottismo: "secondo me se un uomo ti bacia in pubblico vuol dire che non sente niente"; "io, per me, mi ammazzerei solo con la bella stagione; non mi va per niente l'idea di essere sepolta con il freddo"; e, poi, rivolge a Cesare, che le parla di stanchezza, una frase in cui viene riassunta tutta la sua mentalità, "tutti siamo stanchi, ma non è una buona ragione per dirlo: si fa finta, si fa sempre finta". Quando perde la consueta formalità, però, diventa la più volgare e cattiva di tutti, capace di dire a Rosetta "si fa di tutto perché questa cretina non senta il ridicolo della sua situazione: perché uno che non è buono nemmeno ad ammazzarsi è abbastanza ridicolo, no?"
Mariella, nella sua superficiale schiettezza (perché nessun personaggio di questo film è privo di ombre), la descrive alla perfezione: "tu hai sempre l'aria del genio tra i deficienti".
Quasi tutti, prima o poi, perdono le staffe e lo sfogo di Lorenzo, con il suo temperamento da artista votato alla solitaria libertà, è ancora più profondo: "Falliti da salotti [...] bisogna infischiarsene di tutto, e infischiamoci, va bene? Mi fate schifo, tutti".
Sarà, però, quella di Clelia, la sfuriata più importante di tutto il film, contro il cinismo di Momina e di quell'alta borghesia che ormai non tollera più: "tu giochi con i sentimenti degli altri come se tutti fossero come te, tu che i sentimenti non sai nemmeno cosa siano".
Un grandissimo film, in grado di raccontarci uno spaccato sociale degli anni '50 in maniera chirurgica, con un bisturi che Michelangelo Antonioni maneggia con una destrezza difficilmente equiparabile. La trilogia dell'incomunicabilità arriverà cinque anni dopo nella filmografia del maestro ferrarese, ma la sequenza finale alla stazione di Torino sembra già anticiparla... 

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