Da Lady Bird a Piccole donne sono passati poco più di due anni, ma la distanza è breve poiché i due film sembrano uno la diretta conseguenza dell'altro e, riconsiderando il primo, non si stenta a credere che il romanzo preferito da Greta Gerwig fosse proprio quello di Louisa May Alcott, come più volte dichiarato dalla cineasta californiana, che dà inizio al film con una frase in esergo della scrittrice: "Ho attraversato molte difficoltà, per questo scrivo storie allegre" (trailer).
Anche nella sua opera d'esordio in autonomia, infatti, la Gerwig aveva affrontato una storia di formazione al femminile e, pertanto, l'adattamento di Piccole donne sembrava essere la migliore tappa successiva per la sua carriera di regista.
A completare l'inevitabile associazione tra le due pellicole, la presenza della stessa protagonista, Saoirse Ronan, che nella Christine di Lady Bird mostrava già un temperamento deciso e opposto alla morale comune, e che stavolta impersona, naturalmente, proprio Jo March, l'alter ego della scrittrice - e qui anche della Gerwig - dal carattere irruento, determinato e ribelle.
Affrontare un mostro sacro della letteratura statunitense non è cosa facile per nessuno e farlo al secondo film può risultare ancora più complesso. Troppi i confronti con gli adattamenti del passato che, senza contare quelli televisivi e i due perduti dell'epoca del muto, sono solo tre ma tutti ingombranti: su tutti l'immarcescibile versione di George Cukor (1933), con una giovanissima Katherine Hepburn nei panni di Jo; quella di Mervyn Leroy (1949) con Liz Taylor e Janet Leigh - una decina di anni prima di entrare nella doccia più famosa della storia del cinema in Psycho -, e, infine, quella di Gillian Armstrong (1994), con Wynona Ryder, Kirsten Dunst e Susan Sarandon.
Per alcuni versi, inoltre, rischia di essere ingeneroso anche il paragone con la pellicola d'esordio, un film indipendente a basso budget, che aveva dalla sua l'effetto sorpresa e l'ottima sceneggiatura originale.
Qui tutto questo non può esserci, perché il film è una grande produzione Sony da quaranta milioni di dollari, con un cast di primo livello, mentre la sceneggiatura, firmata dalla stessa regista, non può allontanarsi troppo dal romanzo della Alcott.
Greta Gerwig fa la cosa migliore in questa difficile condizione e modula la narrazione con un sapiente uso del montaggio che, attraverso associazioni, ricordi e pensieri, salta continuamente da un'epoca all'altra, mostrando in maniera alternata ora le ragazze ancora giovanissime nella casa di famiglia, ora già fidanzate o, anche se per pochissimo, persino sposate e con figli, fondendo quindi il primo libro della serie (1868), con il secondo, Piccole donne crescono, significativamente intitolato dalla scrittrice Good wives (1869). Non c'è invece traccia dei due romanzi che trasformarono la serie in una tetralogia, Piccoli uomini (1871) e I ragazzi di Jo (1886), ma questo non dovrebbe comunque presupporre il rischio di un sequel,
Le giovani attrici che interpretano le sorelle March funzionano, anche se a livelli differenti: si è detto di Saorsie Ronan nei panni di Jo, indubbiamente la più attagliata per la parte; vanno, via via calando, invece, Florence Pugh come Amy, ancora ottima, dopo la bella interpretazione in Midsommar (Aster 2019); Emma Watson come Meg, che cancella anni della mascolina Ermione Granger nella saga di Harry Potter, per trasformarsi in una canonica ragazza della borghesia ottocentesca statunitense; Eliza Scanlen come Beth, forse la meno riuscita, ma anche il personaggio più sacrificato delle quattro.
Splendide le altre due donne della famiglia. Laura Dern è Marmee, la madre delle ragazze, un ruolo tradizionale per un'attrice che ha sempre interpretato donne lontane da tutto ciò, da quelle impersonate nei film di Lynch che l'hanno resa celebre, fino alle ultime interpretazioni di donna in carriera e spietato avvocato divorzista, rispettivamente nella serie tv Big Little Lies e in Storia di un matrimonio (Baumbach 2019). Meryl Streep è zia March ed è inutile dire che sia perfetta come sempre: cinica e razionale, il suo volto e le sue espressioni dicono moltissimo anche più delle parole, ma quando le usa sono taglienti e penetranti: risponde a Jo, che le fa notare di non essersi mai sposata, "ma che c'entra, io sono ricca"; subito dopo il matrimonio di Meg con lo spiantato professore John, invece, dice alla nipote "scoprirai che amarsi in una casetta è un disastro", aggiungendo poco dopo "non avrò sempre ragione, ma non ho mai torto".
Per quanto riguarda, invece, i ruoli maschili, ha poco spazio Louis Garrel, il professore Friedrich Bhaer, che Jo conosce nel secondo romanzo e che la Gerwig ringiovanisce molto rispetto al maturo uomo della Alcott; è, quindi, la parte di Timothée Chalamet, nei panni di Laurie, la più rilevante. L'attore statunitense, sempre più sulla cresta dell'onda, mostra ancora una volta il proprio talento anche da non protagonista e, seguendo gli umori di Jo, il suo personaggio passa dalla felicità dell'innamoramento a prima vista alla forzosa amicizia impostagli, dalla delusione del rifiuto fino al consolatorio matrimonio con Amy sempre in maniera molto credibile. Sicuramente il ballo di Laurie e Jo la sera del loro primo incontro è una delle sequenze migliori dell'intero film: i due giocano, si divertono e danzano lungo il perimetro della casa in cui si svolge il ricevimento, senza farsi vedere da chi è all'interno, in un tripudio di risate, salti, corse e complicità che anticipa la loro grande affinità.
La Gerwig sottolinea più volte i talenti delle giovani March, dando ovviamente molto spazio alla scrittura di Jo, che vediamo interfacciarsi anche con l'editore del suo libro e lottare per i diritti d'autore, ma soprattutto la seguiamo mentre lo scrive, in una bella sequenza che alla fine la mostrerà sfinita a terra, nottetempo, tra fogli ben distribuiti a terra e alcune candele accese. C'è il giusto spazio anche per il pianoforte di Beth; per le recite di Meg; per la pittura di Amy, che vediamo dipingere come un impressionista realizzando quadri che si rifanno ai pittori francesi (uno di quelli che le vediamo realizzare è decisamente simile a Le déjeuner sur l'herbe di Édouard Manet).
La Gerwig, però, non cita solo la pittura, poiché la seconda scena di ballo è un evidente omaggio all'omologa sequenza de Il Gattopardo di Visconti (1963).
La sceneggiatura insiste sulla critica al matrimonio come unica soluzione di sbocco per la vita di una donna. Viene sostenuto e allo stesso tempo osteggiato dalla zia March che pure, come visto, lo considera inevitabile se non si è ricche; da Jo, che urla a Meg "non sposarti, non innamorarti", e da Amy che lo definisce "una proposta economica", concetto che la stessa Jo riprenderà anche quando l'editore le chiederà un lieto finale per il suo romanzo, un finale all'insegna del "romanticismo" per l'uomo e di pura "venalità" secondo la ragazza.
È, però, a uno scambio di Marmee che la Gerwig riserva la linea di sceneggiatura dal maggiore impatto politico. Lasciata sola dal marito (Bob Odenkirk), medico di campo durante la guerra di secessione - e che nelle sue lettere si riferisce alle figlie come "piccole donne" -, durante la sua attività di volontaria, dice ad una donna afroamericana "ho passato la vita a vergognarmi del mio paese", sentendosi rispondere "scusa, ma dovresti ancora vergognarti", frase che non è possibile non associare anche ai nostri giorni.
Piccole donne è fatalmente un film di maniera, nell'accezione letterale del termine, ma "la storia d'amore tra una ragazza e il suo romanzo", come la regista di Sacramento ha definito il suo film, celebra la volontà, la determinazione e il diritto di mettere in primo piano ciò in cui ognuno di noi crede veramente, al di là degli schemi sociali.
Affrontare un mostro sacro della letteratura statunitense non è cosa facile per nessuno e farlo al secondo film può risultare ancora più complesso. Troppi i confronti con gli adattamenti del passato che, senza contare quelli televisivi e i due perduti dell'epoca del muto, sono solo tre ma tutti ingombranti: su tutti l'immarcescibile versione di George Cukor (1933), con una giovanissima Katherine Hepburn nei panni di Jo; quella di Mervyn Leroy (1949) con Liz Taylor e Janet Leigh - una decina di anni prima di entrare nella doccia più famosa della storia del cinema in Psycho -, e, infine, quella di Gillian Armstrong (1994), con Wynona Ryder, Kirsten Dunst e Susan Sarandon.
Per alcuni versi, inoltre, rischia di essere ingeneroso anche il paragone con la pellicola d'esordio, un film indipendente a basso budget, che aveva dalla sua l'effetto sorpresa e l'ottima sceneggiatura originale.
Qui tutto questo non può esserci, perché il film è una grande produzione Sony da quaranta milioni di dollari, con un cast di primo livello, mentre la sceneggiatura, firmata dalla stessa regista, non può allontanarsi troppo dal romanzo della Alcott.
Greta Gerwig fa la cosa migliore in questa difficile condizione e modula la narrazione con un sapiente uso del montaggio che, attraverso associazioni, ricordi e pensieri, salta continuamente da un'epoca all'altra, mostrando in maniera alternata ora le ragazze ancora giovanissime nella casa di famiglia, ora già fidanzate o, anche se per pochissimo, persino sposate e con figli, fondendo quindi il primo libro della serie (1868), con il secondo, Piccole donne crescono, significativamente intitolato dalla scrittrice Good wives (1869). Non c'è invece traccia dei due romanzi che trasformarono la serie in una tetralogia, Piccoli uomini (1871) e I ragazzi di Jo (1886), ma questo non dovrebbe comunque presupporre il rischio di un sequel,
Le giovani attrici che interpretano le sorelle March funzionano, anche se a livelli differenti: si è detto di Saorsie Ronan nei panni di Jo, indubbiamente la più attagliata per la parte; vanno, via via calando, invece, Florence Pugh come Amy, ancora ottima, dopo la bella interpretazione in Midsommar (Aster 2019); Emma Watson come Meg, che cancella anni della mascolina Ermione Granger nella saga di Harry Potter, per trasformarsi in una canonica ragazza della borghesia ottocentesca statunitense; Eliza Scanlen come Beth, forse la meno riuscita, ma anche il personaggio più sacrificato delle quattro.
Splendide le altre due donne della famiglia. Laura Dern è Marmee, la madre delle ragazze, un ruolo tradizionale per un'attrice che ha sempre interpretato donne lontane da tutto ciò, da quelle impersonate nei film di Lynch che l'hanno resa celebre, fino alle ultime interpretazioni di donna in carriera e spietato avvocato divorzista, rispettivamente nella serie tv Big Little Lies e in Storia di un matrimonio (Baumbach 2019). Meryl Streep è zia March ed è inutile dire che sia perfetta come sempre: cinica e razionale, il suo volto e le sue espressioni dicono moltissimo anche più delle parole, ma quando le usa sono taglienti e penetranti: risponde a Jo, che le fa notare di non essersi mai sposata, "ma che c'entra, io sono ricca"; subito dopo il matrimonio di Meg con lo spiantato professore John, invece, dice alla nipote "scoprirai che amarsi in una casetta è un disastro", aggiungendo poco dopo "non avrò sempre ragione, ma non ho mai torto".
Per quanto riguarda, invece, i ruoli maschili, ha poco spazio Louis Garrel, il professore Friedrich Bhaer, che Jo conosce nel secondo romanzo e che la Gerwig ringiovanisce molto rispetto al maturo uomo della Alcott; è, quindi, la parte di Timothée Chalamet, nei panni di Laurie, la più rilevante. L'attore statunitense, sempre più sulla cresta dell'onda, mostra ancora una volta il proprio talento anche da non protagonista e, seguendo gli umori di Jo, il suo personaggio passa dalla felicità dell'innamoramento a prima vista alla forzosa amicizia impostagli, dalla delusione del rifiuto fino al consolatorio matrimonio con Amy sempre in maniera molto credibile. Sicuramente il ballo di Laurie e Jo la sera del loro primo incontro è una delle sequenze migliori dell'intero film: i due giocano, si divertono e danzano lungo il perimetro della casa in cui si svolge il ricevimento, senza farsi vedere da chi è all'interno, in un tripudio di risate, salti, corse e complicità che anticipa la loro grande affinità.
La Gerwig sottolinea più volte i talenti delle giovani March, dando ovviamente molto spazio alla scrittura di Jo, che vediamo interfacciarsi anche con l'editore del suo libro e lottare per i diritti d'autore, ma soprattutto la seguiamo mentre lo scrive, in una bella sequenza che alla fine la mostrerà sfinita a terra, nottetempo, tra fogli ben distribuiti a terra e alcune candele accese. C'è il giusto spazio anche per il pianoforte di Beth; per le recite di Meg; per la pittura di Amy, che vediamo dipingere come un impressionista realizzando quadri che si rifanno ai pittori francesi (uno di quelli che le vediamo realizzare è decisamente simile a Le déjeuner sur l'herbe di Édouard Manet).
La Gerwig, però, non cita solo la pittura, poiché la seconda scena di ballo è un evidente omaggio all'omologa sequenza de Il Gattopardo di Visconti (1963).
La sceneggiatura insiste sulla critica al matrimonio come unica soluzione di sbocco per la vita di una donna. Viene sostenuto e allo stesso tempo osteggiato dalla zia March che pure, come visto, lo considera inevitabile se non si è ricche; da Jo, che urla a Meg "non sposarti, non innamorarti", e da Amy che lo definisce "una proposta economica", concetto che la stessa Jo riprenderà anche quando l'editore le chiederà un lieto finale per il suo romanzo, un finale all'insegna del "romanticismo" per l'uomo e di pura "venalità" secondo la ragazza.
È, però, a uno scambio di Marmee che la Gerwig riserva la linea di sceneggiatura dal maggiore impatto politico. Lasciata sola dal marito (Bob Odenkirk), medico di campo durante la guerra di secessione - e che nelle sue lettere si riferisce alle figlie come "piccole donne" -, durante la sua attività di volontaria, dice ad una donna afroamericana "ho passato la vita a vergognarmi del mio paese", sentendosi rispondere "scusa, ma dovresti ancora vergognarti", frase che non è possibile non associare anche ai nostri giorni.
Piccole donne è fatalmente un film di maniera, nell'accezione letterale del termine, ma "la storia d'amore tra una ragazza e il suo romanzo", come la regista di Sacramento ha definito il suo film, celebra la volontà, la determinazione e il diritto di mettere in primo piano ciò in cui ognuno di noi crede veramente, al di là degli schemi sociali.
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