giovedì 30 gennaio 2020

Sorry, we missed you (Loach 2019)

Ottantatré e non sentirli! Ken Loach aggiorna le sue tematiche più consone, quelle che vedono protagoniste il proletariato e i ceti meno abbienti inglesi, e sfodera un'intensa e durissima pellicola incentrata sull'incertezza lavorativa di questi anni, nei quali spesso le persone, dopo esperienze fallimentari, sono costrette a tuffarsi in avventure spericolate, in cui i datori di lavoro non offrono più garanzie né diritti di alcun tipo (trailer).
Newcastle. Ricky Turner (Kris Hitchen) ha perso il lavoro, ha dovuto rinunciare all'acquisto di una casa per la propria famiglia e ora deve adeguarsi a quello che offre il mercato del lavoro. Trova un posto in franchising tra gli autisti di una società di consegne, la PDF, nella quale il lavoratore ha gli oneri del lavoro autonomo, senza averne i vantaggi: deve spendere per il furgone con cui effettua le consegne; è responsabile del mezzo, e quindi deve pagare le frequenti multe, ma anche della merce; non ha ferie, né permessi, né altro, cosicché persino in caso di malattia deve trovare un sostituto se non vuole perdere cento sterline al giorno. 
Eppure, per poter ottenere queste pessime condizioni, Ricky chiede alla moglie, Abby (Debbie Honeywood), di vendere l'auto, complicando non poco la vita quotidiana della donna, costretta a muoversi in autobus per garantire i suoi servizi di assistenza a domicilio per aiutare persone anziane o malate. Il lavoro di Ricky, all'inizio entusiasta, si complicherà in breve tempo e a rendere tutto ancora più difficile interverrà anche la crescita del primogenito, il sedicenne Sebastian (Rhys Stone), membro di un gruppo di writer, sempre più ribelle e meno fiducioso in un futuro che non sembra potergli riservare nessun miglioramento rispetto alla condizione attuale del padre. Eppure è proprio lui a riassumere l'essenza del capitalismo come vero datore di lavoro di Ricky, sottomesso alla "pubblicità che convince le persone a comprare oggetti che non possono permettersi".

Loach fa iniziare sin dai titoli di testa il dialogo tra Ricky e Maloney, il gestore del magazzino da cui partono le consegne e che si occupa anche di assumere il personale: lo schermo è ancora nero, quando sentiamo dire a Ricky che non sarà "assunto", ma "inserito", non avrà "stipendio", ma "tariffe", non lavorerà "per" loro ma "con" loro, usando un vocabolario che scricchiola ed evidenzia i tanti difetti di quel sistema. 
"Le parole sono importanti" avrebbe detto il Nanni Moretti-Apicella di Palombella Rossa (1989) e vorremmo tutti ripeterle davanti a Maloney, piccolo capo meschino e cinico che gongola presuntuosamente solo perché ha il potere di decidere chi resta e chi va, grottesco intermediario tra il proprietario senza volto e gli ultimi anelli di una terribile catena lavorativa, inconsapevole di quanto il suo ruolo, in fondo, non sia molto diverso: non esiste stima, non c'è confronto, né umanità, ma solo numeri, senza i quali nessuno è più necessario.  
Anche la solidarietà tra colleghi viene scoraggiata, poiché le difficoltà di uno possono rappresentare il guadagno dell'altro, pronto a rilevare le consegne più remunerative, senza mai considerare che prima o poi nella medesima situazione ci si potrà trovare anche lui. Maloney, infine, è anche colui che gestisce gli inquietanti controller che semplificano il lavoro dei driver, poiché in grado di fare da navigatori, da promemoria, da registratore di cassa, ma che, tramite gps, permettono di localizzare ognuno di loro sia dal datore di lavoro sia dall'ormai sempre più esigente clientela.
Anche l'espressione "Sorry, we missed you" è parte del sistema: è questo, infatti, il messaggio prestampato sul foglio che viene lasciato nelle cassetta della posta del cliente quando non c'è nessuno all'indirizzo di consegna. Scuse ingiustificate, per un servizio in fondo effettuato, ipocrisia di un linguaggio privo di onestà sempre e comunque.
Il simbolo di quanto possa essere folle e surreale questo sistema lavorativo è tutto nel consiglio di un collega, che consegna a Ricky una bottiglia di plastica vuota, dove potrà fare pipì quando non avrà tempo per raggiungere un bagno: rientrare nei numeri, ottenere un certo numero di consegne mettendo tutto il resto della vita in secondo piano, diventerà l'unico obiettivo...
Eppure a questo si contrappone indomita la logica di Abby, che, anche nei momenti di massimo scoramento, conserva l'etica del suo lavoro: "ho una regola, trattarli come mia madre". Non a caso, peraltro, uno dei momenti più sereni della famiglia è quello in cui tutti decidono di accompagnare Abby da un'anziana signora in quella che sarebbe dovuta essere una serata di relax: nelle giuste condizioni si può lavorare con il sorriso anche in casi di emergenza!
Col tempo la più lucida della famiglia sembrerà essere la più piccola, Liza (Katie Proctor), seconda figlia di Ricky e Abby, sicuramente più responsabile del fratello e talvolta anche dei genitori. Anche per lei, però, ci saranno dei cedimenti e Loach le affida un dettaglio favolistico che sembra derivare direttamente dal disneyano Le avventure di Bianca e Bernie (Reitherman, Lounsbery, Stevens 1977).
La lotta di classe è ovunque, persino nello sport, e Loach, che nel 2009 aveva girato Il mio amico Eric con Eric Cantona e tre anni dopo aveva dichiarato «La nostra salvezza? I tifosi del calcio», dà spazio anche a quello che ritiene uno degli ultimi baluardi della dimensione collettiva. Ricky, infatti, tifoso del Manchester United, si presenta con la giacca della tuta della sua squadra del cuore ad una porta che viene aperta da un cliente che indossa la maglietta del Newcastle e che irritato guarda chi ha di fronte e gli dice "non ho mai visto un loro tifoso di Manchester, sono tutti di Londra"! Critica sociale e d'identità campanilistica non troppo diversa da quelle alle nostre latitudini...
Sulla questione lavorativa, però, Loach (e lo sceneggiatore Paul Laverty) mette il proprio pensiero - e il nostro - in bocca ad una delle anziane signore di cui si occupa Abby, che prima mostra le foto degli scioperi dei minatori del 1984, quelli contro Margareth Tatcher, da cui traeva origine il soggetto di uno dei film più famosi del regista inglese, Riff Raff (1989), e poi prorompe in un eloquente "che ne è stato delle otto ore contrattuali?"
Sembra che i diritti nel mondo del lavoro stiano sempre più assottigliandosi, dopo anni di certosina premura finalizzata a togliere certezze, mettendo le persone le une contro le altre, rendendole sempre più disponibili a combattere una guerra fra poveri che fa solo il gioco di chi è in cima al processo produttivo. Ken Loach lo urla a gran voce, ponendosi dalla parte di chi viene sfruttato: difficilmente qualcuno lo ascolterà, ma guardare i suoi film può aiutare a capire da che parte stare!

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