giovedì 22 agosto 2019

Midsommar (Aster 2019)

Fin dove è lecito spingersi nella comprensione degli usi e dei costumi di un'altra cultura?
L'horror antropologico di Ari Aster sembra partire da questa domanda e sfidare il pubblico con un'ambientazione che è essa stessa in contrasto con uno degli elementi più tipici, persino identitari, dell'horror: il buio.
Midsommar, infatti, si svolge in pieno giorno e, anzi, in diversi giorni che sembrano non finire mai, dato che in Svezia le ore di sole sono amplificate dalla posizione geografica.
Nonostante l'inutile e fuorviante sottotitolo italiano, Il villaggio dei dannati, la nuova pellicola del trentatreenne regista newyorchese non ha nulla a che vedere con il film di John Carpenter (1995), a sua volta remake di quello diretto da Wolf Rilla (1960). Non c'è traccia di bambini spietati e con poteri telepatici, ma a terrorizzare è la "semplice" quotidianità di una comunità che segue antiche tradizioni nordiche, tra paganesimo, natura e alfabeto runico.
Quattro amici e colleghi universitari decidono di partire dagli Stati Uniti e raggiungere Hälsingland, provincia centro-orientale della Svezia: Josh (William Jackson Harper), Christian (Jack Reynor) e Mark (Will Poulter) seguono la proposta di Pelle, cresciuto laggiù, che ha organizzato il viaggio in occasione dei nove giorni della festa in cui la comunità di Hårga celebra l'estate, la Midsommar del titolo.
Al piccolo gruppo si unisce all'ultimo momento anche Dani (Florence Pugh), la fidanzata di Christian, che ha appena perso genitori e sorella in circostanze tragiche e spera in un viaggio che possa darle serenità... una scelta che, come in ogni horror che si rispetti, si rivelerà profondamente sbagliata.
Ad Hårga si saluta il sole al mattino, si danza, si prega, si intrecciano fiori, si cucina e si mangia; una vita perfetta per qualche giorno anche per gli stranieri che osservano con curiosità quella comunità e, nel caso di Josh e Christian, con un interesse particolare finalizzato a trovare l'argomento migliore per la propria tesi di laurea in antropologia.
Aster pensa a correnti neopagane, come Wicca, Druidismo, Asatru, magia cerimoniale e popolare, alle neo-religioni dei nativi americani, diffuse negli ultimi decenni soprattutto tra Stati Uniti ed Europa. Il giudizio verso queste tendenze è impietoso: la storia narrata non fa che aumentare la distanza del mondo civile e razionale da realtà che il regista sembra intenzionato a parodiare.
Tra le stranezze più intollerabili di Hårga, la concezione di quattro rigide fasi delle vita: 0-18 l'età della crescita; 18-36 l'età del pellegrinaggio (quella cui appartiene Pelle); 36-54 l'età del lavoro; 54-72 età del riposo, in cui si è considerati "mentori". Chi supera gli anni previsti ha finito il suo ciclo vitale ed è costretto dalla tradizione a sottoporsi ad una cerimonia rituale nella quale trova volontariamente la morte gettandosi da una rupe. Il tutto per non corrompere lo spirito con le malattie ed evitare di "lottare contro l'inevitabile", come spiega agli increduli astanti una delle sacerdotesse addette al rito.
Se questa è la più clamorosa evidenza di una cultura difficilmente accettabile per chi viene da lontano, sono tanti altri gli elementi disturbanti di questa piccola comunità: le pitture che decorano tessuti e pareti lignee degli edifici raccontano storie di torture autoinflitte, sangue, danze, riti magici, orsi in fiamme, ecc.; una calma irreale nei volti degli abitanti di Hårga pronta a trasformarsi in furia appena qualcosa va fuori dal loro schema; un'endogamia strutturale che genera individui deformi, ritenuti in possesso di poteri divinatori, e una conseguente necessità di nuovi adepti per la riproduzione.
A contrastare tutto questo, gli aspetti (in)volontariamente parodistici che, a tratti, raggiungono vette degne dei Monty Python: vedere che in caso di mancato suicidio, dopo il salto nel vuoto dalla rupe, ci sia un uomo addetto a completare il rito con un enorme martello di legno fa pensare ad uno sketch del celebre gruppo comico inglese, magari con John Cleese in quei panni; e così, quando Mark si allontana per fare pipì e fatalmente si ritrova a farla proprio sulle ceneri degli antenati della comunità, si ride senza freni, forse anche per liberarsi delle immagini precedenti.
Aster gira con talento: si veda soprattutto l'inizio del film, in cui sfoca spesso l'immagine, metafora della confusione che attanaglia Dani, combattuta tra le difficoltà familiari e i sensi di colpa, perché costretta a coinvolgere costantemente Chris, e gioca con i riflessi come nel dialogo tra Dani e Chris, con la ragazza in piedi di fianco ad uno specchio che mostra il fidanzato in realtà seduto di fronte a lei, rendendo non necessaria l'alternanza di campo e controcampo da parte di una mdp che così può rimanere fissa sull'inquadratura iniziale.
Altro pregio della pellicola è quello meramente visivo: l'essenzialità svedese è declinata da scenografia e costumi di grande impatto. I già citati dipinti sono realizzati con uno stile duro e grezzo che si attaglia alle tradizioni arcaiche, quasi ancestrali, che intendono raccontare; l'esterno della casa triangolare gialla è puro design scandinavo (e non a caso esistono già meme che la mostrano come fosse una pubblicità di Ikea); l'interno dell'edificio in legno in cui i ragazzi dormono ha un grande fascino e non solo per le pitture: la grande aula è parzialmente occupata dai letti disposti in maniera parallela ed è strutturata su più livelli cosicché, quando la mdp la riprende interamente, l'effetto "casa di bambola" è palese e non può non far pensare al film d'esordio di Aster, Hereditary (2018), in cui Toni Colette, nei panni di Annie, lavorava proprio a modellini di case.
Anche l'effetto delle droghe, offerte agli ospiti di Hårga e assunte in diverse forme da questi durante il loro soggiorno, contribuisce ad immagini inevitabilmente fuori dal comune: su tutte Dani che guarda i suoi piedi e li vede trasformarsi in piante, per poi partecipare ad una danza ininterrotta che la vede prevalere sulle altre ed essere eletta "regina di maggio", divinità primaverile che denuncia una certa influenza botticelliana.
Con questo secondo lungometraggio, il regista sembra ribadire che il terrore può essere molto vicino a noi: la famiglia del primo film stavolta è costituita dalla piccola comunità, che non a caso parla di se stessa come tale, e in quest'ottica Pelle la descrive a Dani, la persona che, dato quanto le è accaduto, può averne bisogno.
Difficile immaginare qualcosa di più spaventoso del contesto in cui siamo nati e cresciuti che improvvisamente scopriamo essere folle (Hereditary) o quello che potrebbe accoglierci per regalarci la serenità perduta che si palesa come il più temibile dei pericoli (Midsommar). L'incubo è così servito su un piatto d'argento e poco importa se il sole illumina tutto privando ogni cosa della sua ombra.
Dani, d'altronde, è un'Alice che diventa regina nel paese delle meraviglie, come lei si ritrova davanti al fiabesco buco della serratura, qui ovviamente virato in dramma, e nonostante abbia scoperto di essere arrivata all'inferno, non per questo può negare a se stessa che l'inferno può far sorridere chi non ha motivo di sorridere da tempo... 

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