sabato 9 luglio 2016

Il Gattopardo (Visconti 1963)

Tra i più celebri film di Luchino Visconti, sicuramente il più magniloquente, il Via col Vento italiano, come venne ribattezzato, una pellicola che racconta un importante momento della storia dell'Italia preunitaria in un eccezionale adattamento delle pagine dell'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), uscito postumo nel 1958, e che ebbe un enorme successo di critica (vinse il Premio Strega 1959 ai danni di Una vita violenta di Pasolini) e di pubblico (il primo best seller italiano con oltre centomila copie vendute).

L'ideatore del progetto fu Goffredo Lombardo, direttore della Titanus, già produttore di Rocco e i suoi fratelli (Visconti 1960), che si innamorò subito del libro e ne acquisì i diritti. Fu lui a proporre ad Ettore Giannini di scrivere la sceneggiatura, poi affidata a Suso Cecchi d'Amico, ma soprattutto a determinare la scelta dell'attore principale, inizialmente caduta su Laurence Olivier. Quale migliore attore dell'aristocratico sir Olivier per interpretare Fabrizio Salina, il nobile siciliano protagonista, per il quale l'autore del romanzo si era ispirato al suo bisnonno, il principe Giulio Fabrizio?
Se, però, la scelta di Visconti propendeva per il grande attore inglese o per il russo Nikolaj Čerkasov, Lombardo propose Burt Lancaster, attore che il grande pubblico conosceva soprattutto come interprete di western, e lo stesso regista si oppose fermamente. Il produttore non si arrese e non lo fece nemmeno quando Lancaster gli confessò di non aver mai visto alcun film di Luchino Visconti.
Fu lui, prima a far vedere Rocco e i suoi fratelli all'attore statunitense e poi a mettere i due nella stessa stanza, facendoli incontrare all'hotel Excelsior di Roma e dicendo ad entrambi, mentendo, quanto ognuno di loro fosse impaziente di lavorare con l'altro. Il trabocchetto riuscì e prese avvio uno dei più grandi film italiani di sempre, anche se, la presenza di Lancaster e il titolo inglese The leopard, causarono l'inziale insuccesso della pellicola soprattutto negli Stati Uniti, dove gran parte del pubblico si aspettava una storia ambientata nel far west e con il protagonista nel suo ruolo più consueto.
A fianco ai nomi già citati, lavorarono Giuseppe Rotunno, come direttore della fotografia, Nino Rota della musica e Pietro Tosi dei costumi, unico ad essere nominato agli Oscar dell'anno seguente. Lancaster giunse in Sicilia un mese prima dell'inizio delle riprese per conoscere la vita dei nobili ed entrare meglio nel personaggio.
Il film fu caratterizzato, come sempre, dal perfezionismo assoluto di Visconti che, tra le altre cose, fece bloccare una parte di Palermo per realizzare l'importante sequenza della guerra; chiese forniture di fiori provenienti esclusivamente da Sanremo; girò la celeberrima scena del ballo in quattro lunghe settimane, pur di non rinunciare all'illuminazione naturale delle candele.
La pellicola, della durata di oltre tre ore, è un susseguirsi di splendide sequenze rimaste nella storia del cinema italiano.
Il film si apre, per esempio, con una recita del rosario all'interno della villa dei Salina, disturbata da un frastuono causato da scontri tra borbonici e rivoluzionari garibaldini da poco sbarcati a Marsala (siamo in pieno 1860), ma di cui i familiari di palazzo non si preoccupano: la luce del sole, il vento e la disposizione dei personaggi su piani sovrapposti, mai casuale in Visconti, famoso per i suoi gruppi in interno, dimostrano da subito la cura per i dettagli e la regia ai limiti della perfezione, in una sequenza che testimonia sin da subito quale sia l'atteggiamento di quelle persone nei confronti della storia che passa al loro fianco, ma non riesce a distoglierle dalle proprie consuetudini.
Il garibaldino del film e l'Albero di Iesse nel Breviario di Filippo il Buono
La cultura figurativa di Visconti, però, non si vede solo nella grande capacità, pittorica e teatrale, di una messa in scena in cui ogni personaggio trova il suo spazio, quasi mai sovrapponendosi ad un altro, ma anche per esempio nell'inquadratura della morte del garibaldino, sdraiato davanti ad un albero, in un'immagine che tanto ricorda l'iconografia dell'albero di Iesse; così come nelle inquadrature degne di Giovanni Fattori e di tanta pittura ottocentesca italiana, caratterizzate da una forte illuminazione, tagli diagonali e scorci paesistici; più avanti, in un pranzo all'aperto della famiglia Salina che si trasforma in un'evidente citazione de Le dejeuner sur l'herbe di Manet; e infine la contemplazione da parte di don Fabrizio de La morte del giusto di Greuze, dipinto in cui vede la sua futura dipartita.
È nelle prime sequenze che conosciamo i personaggi principali tra cui, oltre a don Fabrizio, padre Pirrone (Romolo Valli), il sacerdote di famiglia, che sarà spesso l'interlocutore del protagonista, e soprattutto Tancredi (Alain Delon), nipote del principe, amato dallo zio più dei suoi stessi figli, che vediamo per la prima volta riflesso nello specchio di don Fabrizio, in un dettaglio viscontiano che riassume perfettamente l'idea che i due in fondo rappresentino lo stesso personaggio diviso in due generazioni differenti.
Sarà proprio Tancredi a fare da trait d'union e a colmare, in parte, la distanza tra gli eventi storici e il mondo in cui vive ancora Fabrizio: si unirà alla rivoluzione e porterà in casa il profumo di quell'ondata di novità che, però, una volta passata, lascerà tutto esattamente com'era...
Proprio a tal proposito il testo della sceneggiatura deve, inevitabilmente, moltissimo al romanzo di Tomasi di Lampedusa, il cui concetto fondante diventa un tormentone anche tra le battute degli attori, oltre ad essere poi assurto a frase antonomastica della nostra lingua.
Sia Tancredi sia don Fabrizio lo ripetono, infatti, con parole leggermente differenti: all'inizio il ragazzo giustifica con lo zio il suo ingresso tra i rivoluzionari con un eloquente "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi"; in un dialogo-confessione con padre Pirrone, il principe Fabrizio sottolinea che "il nostro è il Paese degli accomodamenti", e più tardi, giustificando il suo voto per l'Italia unita come unica soluzione contro l'anarchia, ripete quasi esattamente la frase del nipote, "qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse com'era prima".
Compromessi, utilitarismo e trasformismo politico, per una storia in bilico tra lucida lettura storica e visione reazionaria e antirisorgimentale, non a caso i due modi con cui venne accolto il romanzo di Tomasi di Lampedusa.  
Il tempo è la dimensione con cui tutti devono fare i conti, ma don Fabrizio, dal temperamento malinconico, è quello su cui sembra avere più effetto, nonostante la sua vecchiaia sia di soli 45 anni. Potremmo definirlo un conservatore illuminato, consapevole di aver superato l'età delle decisioni importanti e ormai convinto di dover lasciare il passo ad altri osservando gli eventi dall'alto, con un certo distacco. Un'ultima decisione, però, deve ancora prenderla, e riguarda proprio il suo successore e quella che considera il modello di una società nuova, costituita da un rappresentante della nobiltà, lo stesso Tancredi, e una della borghesia, Angelica (Claudia Cardinale), figlia di Calogero Sedàra (Paolo Stoppa), sindaco di Donnafugata, feudo dei Salina in cui la famiglia si trasferisce per la villeggiatura estiva.
Il rapporto di don Fabrizio con la moglie Maria Stella (Rina Morelli) è di pura forma ma, durante la già citata conversazione con padre Pirrone, non manca di notare "come posso accontentarmi di una donna che a letto si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che dopo non sa dire che Gesummaria" e come, nonostante i sette figli avuti, "non ho mai visto il suo ombelico", giustificando così le sue sortite nei postriboli palermitani in cui assapora le vere gioie del sesso.
Le sue idee sull'amore, d'altronde, le dichiara in maniera esplicita a padre Pirrone, quando gli spiega le sue priorità per il matrimonio del nipote: "l'amore... fuoco e fiamme per un anno e cenere per trenta, lo so anch'io che cos'è l'amore".
È chiaramente lui l'indiscusso protagonista della storia ed il suo ruolo di pater familias viene continuamente messo in evidenza, come ad esempio quando lo vediamo leggere un passo dell'undicesimo capitolo del racconto Angiola Maria storia domestica di Giulio Carcano (1839), ai familiari attenti, attorno al camino, mentre le donne cuciono, in una sequenza che permette a Burt Lancaster di esibirsi in un brano di metarecitazione.
Di grande rilievo il personaggio del gesuita interpretato da Romolo Valli, una sorta di don Abbondio in versione siciliana, apparentemente lontano dai fatti ma, al sicuro da ogni coinvolgimento personale, ha un'opinione sempre pronta e spesso interessata: l'ascesa della borghesia che prende piede a sfavore della nobiltà, per esempio, mostra il suo timore che vengano messi a repentaglio i beni della Chiesa sui quali, con malcelato egoismo mascherato da prodigalità per i meno abbienti, fanno affidamento i poveri; allo stesso tempo, però, mentre da un lato va incontro ai nobili per piaggeria e convenienza, è pronto a criticarli ferocemente quando è insieme a dei popolani, ai quali rivela che nobili come i Salina vivono in un'altra dimensione e anche durante la rivoluzione non rinunciano alla loro villeggiatura poiché "a loro importa di cose che a voi e a me non importa affatto".
Sul ruolo di Angelica, la splendida figlia di don Calogero, uomo rozzo e simbolo dell'ascesa sociale di uomini senza qualità dovuto alla politica, si potrebbe parlare a lungo, ma va riconosciuto che è lei la massima rappresentante del ceto medio che avanza. È lei, infatti, a scalzare la simpatia di Tancredi per la cugina Concetta (Lucilla Morlacchi), figlia dello stesso Fabrizio, che le preferisce Angelica non solo per questioni economiche, ma anche perché in fondo se ne innamora egli stesso, forse anche più del nipote. Il suo ingresso in scena è folgorante e Visconti lo trasforma in un colpo di fulmine generalizzato che investe tutti i presenti, senza distinzione di sesso. L'escamotage narrativo è la gelosia del padre, don Calogero, che la porta a cena nella villa dei Salina al posto della moglie che tiene rinchiusa in casa dichiarandola malata. Proprio a questo dettaglio, peraltro, è dedicato l'unico flashback del film con il quale don Ciccio Tumeo (Serge Reggiani), organista della chiesa che va a caccia col principe di Salina, racconta a don Fabrizio di essere riuscito a vedere donna Bastiana Sedàra in una sola occasione.
Anche lo stesso don Ciccio è un personaggio interessante e, pur se solo grazie a quel dialogo, fa da contraltare a don Fabrizio, mostrandosi ben più conservatore di lui. Rispetto al principe ha votato contro l'annessione al Regno d'Italia (dimostrando che il risultato plebiscitario è stato causato da brogli elettorali), e lo ribadisce con la battuta "io i savoiardi me li mangio cu' ccafè".
Un ultimo personaggio merita attenzione, il cavaliere Chevally (Leslie French), l'uomo del governo sabaudo - caratterizzato da occhiali a stanghetta e favoriti sul modello di Cavour - che arriva da Torino per proporre a don Fabrizio di accettare la nomina a senatore del regno. La sua presenza a casa Salina è una palese dimostrazione della distanza tra due mondi lontanissimi, acuita dall'atteggiamento dei membri della famiglia: don Fabrizio lo obbliga quasi alla sua invadente ospitalità e ad una indesiderata partita a carte; il figlio Francesco Paolo (Pierre Clementi) lo spaventa con racconti di brigantaggio; padre Pirrone e Tancredi con altre storie di omicidi e morti.
Lo studio di don Fabrizio nella Sala delle belle di Ariccia
Il dialogo tra il principe di Salina e il funzionario sabaudo è l'ennesima occasione per don Fabrizio di precisare le sue idee, con alcuni dei più bei passi della sceneggiatura: "sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromesso con il passato regime e a questo legato da vincoli di decenza se non di affetto. La mia è un'infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due... e per di più io sono completamente senza illusioni. Che se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore cui manca la facoltà di ingannare se stesso, essenziale requisito per chi voglia guidare gli altri". Per poi chiosare a più riprese prima sulla Sicilia e sui siciliani: "da 2500 anni non siamo nient'altro che una colonia [...] da noi ogni manifestazione, anche la più violenta è un'aspirazione all'oblìo [...]  [i siciliani] non vorranno mai migliorare perché si considerano perfetti, la vanità in loro è più forte della miseria", e quindi accommiatandosi da Chevally in partenza, con il monologo che dà il titolo al romanzo e al film: "Noi fummo i gattopardi, i leoni, chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene, e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecori continueremo a crederci il sale della terra".
Nel cast compaiono anche Massimo Girotti (che solo quattro anni dopo, con Dio perdona... io no! diventerà per sempre Terence Hill) e Giuliano Gemma, nei panni di due commilitoni garibaldini di Tancredi, e una giovanissima Ottavia Piccolo, che impersona una delle figlie più piccole di don Fabrizio. Il personaggio interpretato dal primo, peraltro, il milanese conte Cavriaghi, seguirà Tancredi anche nell'esperienza successiva, al servizio dell'esercito sabaudo.

Il Te Deum nella chiesa Madre di Ciminna
Una trattazione a parte meritano le bellissime location.
La settecentesca Villa Boscogrande a Cardillo, nella cosiddetta Piana dei Colli, zona in cui gran parte dell'aristocrazia palermitana costruì le proprie residenze estive, fa da sfondo alle sequenze di interni ambientate a Donnafugata.
La chiesa in cui don Fabrizio, durante la funzione, chiede alla moglie di invitare i Sedàra per una cena di rappresentanza, è la chiesa Madre, intitolata a Santa Maria Maddalena, a Ciminna, in provincia di Palermo, che Visconti scelse per il pavimento in maiolica, gli stucchi e soprattutto gli stalli secenteschi del coro intagliati con figure grottesche, su cui fece sedere i membri della famiglia Salina, pieni di polvere e terra che il vento muove abbondantemente rendendo i loro volti cinerei, ennesima metafora della loro appartenenza ad un'età morta. 
Il pranzo del film e la Sala da Pranzo d'estate di Ariccia
L'edificio in cui è girata la cena in cui Tancredi e Angelica iniziano a flirtare, e in cui sono lo studio di don Fabrizio, la camera da letto dei principi di Salina e il salone in cui il principe accoglie Tancredi quando torna con la divisa reale, sono rispettivamente la Sala da pranzo d'estate, la Sala delle belle, la Camera verde e il grande Salone con il camino in pietra serena del bellissimo palazzo Chigi ad Ariccia, allora ancora di proprietà della famiglia (è stato venduto da Agostino V Chigi al comune di Ariccia solo nel 1988). Il palazzo venne scelto, anche per altre scene, per la presenza degli arredi seicenteschi e soprattutto per i corami alle pareti, ancora oggi in situ come un tempo.
Proprio la scena della cena, con la mdp che ruota attorno al tavolo e la sguaiata risata di Claudia Cardinale, con cui il regista chiese all'attrice di dimostrare tutta la distanza sociale del suo personaggio da quel contesto, è uno dei tanti pezzi di bravura di Visconti.
Solo per citarne qualcun altro, si pensi all'ellissi costituito dal lungo bacio tra Tancredi e Angelica - sulle note della bellissima I sogni del principe di Nino Rota -  che li porta da casa Salina al palazzo da ristrutturare dove dovranno andare a vivere. E l'intera sequenza successiva è eccezionale: dalle stanze che si susseguono a cannocchiale ai dipinti poggiati a terra e in pessime condizioni (ennesima metafora di un'epoca passata), da una bellissima immagine con una massa di libri accatastati a Tancredi che gioca a nascondino con Angelica, fino alla citazione di un pensiero dello zio Fabrizio, convinto "che un palazzo di cui si conoscono tutte le stanze non è degno di esser abitato". 
La sequenza più celebre del film, però, è naturalmente quella del valzer tra Burt Lancaster e Claudia Cardinale, incastonata nell'ultima parte della pellicola, dedicata alla lunga serata di gala a villa Salina, girata nel palermitano Palazzo Valguarnera-Gangi e soprattutto nello splendido salone da ballo. Qui Visconti dà il meglio di sé, superando persino lo sfarzo raggiunto in Senso (1954): la mdp segue Tancredi e Angelica, indugia sui meravigliosi abiti femminili, sui loro ventagli e sulla scenografia curata in ogni minimo dettaglio (l'aristocrazia palermitana contribuì offrendo i propri oggetti d'epoca).
E, come è stato già notato, la sequenza del gran ballo in villa è solo l'ultima di una serie di momenti tipici dell'ancient regime: "la preghiera, la toletta, la vestizione, la lettura, il gioco, la caccia, la colazione all'aperto, il pranzo, il ballo" (Bencivenni 1995, pp. 57-58)... molti di quei riti, almeno in quella forma, non esisteranno più.
Don Fabrizio, dopo una divertente e cinica battuta sulle ragazze nate dai frequenti matrimoni tra consanguinei ("sembrano scimmiette pronte ad arrampicarsi in cima ai lampadari, e da lì, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani"), e dopo il più triste e malinconico dei suoi dialoghi, concede il ballo ad Angelica. Ormai la sua epoca è davvero tramontata, la festa è finita e non gli resta che allontanarsi al rintocco delle campane scomparendo sullo sfondo dell'inquadratura che, dopo minuti e minuti di sovraffollamento, resta priva di personaggi...
Capolavoro assoluto e strameritata Palma d'Oro a Cannes!

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