martedì 4 dicembre 2018

Strategia del ragno (Bertolucci 1970)

Liberamente tratto dal racconto di Juan Luis Borges Tema del traditore e dell'eroe, il film affronta il rapporto tra padre e figlio in una situazione limite, quella in cui i due non si sono mai conosciuti per la precoce morte del primo, e la conseguente idealizzazione della figura paterna da parte del figlio che, freudianamente, per crescere deve liberarsene (vedi il film).
Lenti carrelli laterali e in avanti, prospettive centrali, surcadrage, spazi scenici che si allungano pittoricamente in profondità in una sorta di vedute a cannocchiale.
Bernardo Bertolucci gira magnificamente utilizzando come sfondo la bellissima Sabbioneta, città rinascimentale per antonomasia, che per l'occasione viene ribattezzata Tara, un nome che evoca in ogni cinefilo l'immagine di Vivien Leigh con una manciata di terra in mano e un cielo rosso da tregenda in Via col vento (Fleming 1940).
La mdp attraversa i suoi spazi, accoglie il giovane Athos Magnani (Giulio Brogi) alla stazione ferroviaria - nella realtà è quella di Brescello (Reggio Emilia) - e lo accompagna per filari di alberi fino ad una targa viaria che riporta il suo nome, per mostrarci, subito dopo, anche la piazza con la stessa intitolazione e, in aggiunta, il giorno della morte, 15 giugno 1936. Scopriamo così che Athos è figlio omonimo del padre, "eroe vigliaccamente assassinato dal piombo fascista" proprio a Tara.
Da questo antefatto si sviluppa con unità di tempo, di spazio e di azione, la vicenda politica, investigativa e psicanalitica della Strategia del ragno, pellicola rigorosa, teatrale e shakespeariana del giovane talentuoso Bernardo Bertolucci. 

Athos è a Tara per la prima volta, eppure tutti sgranano gli occhi udendo quel nome e notando anche l'enorme somiglianza col padre, in una città che sembra essere rimasta ferma al 1936: non solo non c'è un bambino, ma tutti gli abitanti sono ultrasettantenni; d'altronde a Tara, da anni, non passano più nemmeno i treni, come dimostra l'erba cresciuta sui binari: cinema puro, che non necessita di parole, quello di Bertolucci.
Ogni personaggio ha ricordi di quel passato per il quale Athos è tornato, al fine di ricostruire gli eventi e di fare un po' di chiarezza sulla figura del padre, per lui inevitabilmente sfumata e con la quale ha un unico faccia a faccia simbolico, riassunto nella visione circolare, girata in campo e controcampo, del busto-monumento paterno al centro della piazza principale di Tara alternato al volto del figlio che sembra interrogarlo in silenzio.
Il suo soggiorno è una sequela di incontri e dialoghi con chi aveva vissuto a fianco al padre: Draifa (Alida Valli), "la sua amante ufficiale", come si autodefinisce la donna che lo ha fatto venire in città e che deve il proprio nome a un padre affascinato dall'affare Dreyfus; il suo nemico più acerrimo, l'industriale Agenore Beccaccia; i suoi tre amici, che si identificano con le loro professioni, secondo un costume tipico della provincia in cui l'articolo indeterminativo si fa determinativo, cosicché Gaibazzi è l'assaggiatore di culatelli (Pippo Campanini), Rasori è il maestro di scuola (Franco Giovannelli), e Costa, ça va sans dire, il proprietario del cinema (Tino Scotti). Athos si convince che i tre abbiano concordato una versione dei fatti, ma non riesce proprio a spiegarsi "se è la verità perché mettersi d'accordo?". Come commenta in un altro momento, Tara è "un paese di pazzi e di vecchi, di vecchi pazzi, ma siamo tutti amici", frase con cui sottolinea l'ambiguità che lì sembra caratterizzare tutti i rapporti umani e tutti gli abitanti. Tutto è ambiguo e la mdp si adegua, ad esempio nella sequenza che dimostra il costante punto di riferimento rappresentato dalla Nouvelle vague  e soprattutto da Godard: un uomo bussa alla porta di Athos e mostra un pugno chiuso che subito dopo diventa un pugno al volto del ragazzo, immobile nella sua iconicità, in rigorosa soggettiva.
Il giorno dell'assassinio di quello che è diventato un eroe per l'intera comunità era in scena il Rigoletto, e inizialmente, secondo i piani, avrebbe dovuto morire il duce a Tara ma, messo sull'avviso di un possibile attentato, Mussolini aveva declinato l'invito.
I tanti racconti di chi c'era allora non permettono ad Athos di risolvere il caso e di dissipare i dubbi sull'identità dell'assassino del padre, cosicché il giovane Magnani decide di ripartire, ma proprio allora tutto diventa più chiaro, soprattutto quando uno degli amici gli rivela che "tuo padre diceva che la verità non conta niente; sono le conseguenze della verità che contano"...  

Bertolucci dissemina qua e là alcuni flashback, senza dargli una connotazione particolare e rendendo tutto ancora più ambiguo: Athos padre, per esempio, è interpretato dallo stesso attore che impersona il figlio ma con al collo un fazzoletto rosso che lo identifica. È poi il contesto ad aiutare lo spettatore, come la sequenza della balera, in cui lo stesso Athos balla sulle note di Giovinezza di Giuseppe Blanc, a pochi passi da alcune camicie nere, segno chiaro che l'azione di svolge nel passato.
Altre volte l'analessi è ancora meno riconoscibile, poiché fusa con l'azione principale: è il caso in cui Athos padre è ad una finestra dell'appartamento di Draifa da cui vede la cattura del leone fuggito dal circo (il portico è quello della Galleria degli Antichi, ancora a Sabbioneta). In questo frangente, infatti, è solo il racconto che ne fa la stessa donna a farci capire che siamo nel passato, anche se ne parla mentre è in scena ancora in sottoveste, come un attimo prima, quando era anche lei in quel passato, chiaro esempio di sovrapposizione diegetica che non può non generare un senso di straniamento in chi guarda.
Proprio quel leone, inoltre, venne mangiato in un banchetto che Bertolucci mette in scena come racconto del passato, che nei toni sembra preannunciare La grande abbuffata (Ferreri 1973). E non è questo l'unico caso in cui Strategia del ragno sembra anticipare motivi che si ritroveranno nel migliore cinema italiano degli anni immediatamente successivi. Chissà, infatti, se Fellini abbia guardato all'inizio del film per l'analoga scena di Roma (1972), in cui il suo alter ego arriva in stazione e si aggira inizialmente spaesato e in silenzio per le strade a lui ignote.

Come in altre pellicole di Bertolucci, inoltre, riveste un ruolo di primo piano la visualità pittorica, in parte figlia degli insegnamenti di Pasolini, con alcune inquadrature che evocano composizioni storico-artistiche. In una scena Athos e Draifa parlano seduti a un tavolino: alla rigida prospettiva centrale fa da sfondo il giardino al di là della finestra, dove il punto di fuga coincide con la giovane domestica di Draifa che lavora in giardino con un grande cappello a larghe falde. Rinascimento e Impressionismo si incontrano.
Altrettanto debitrice della cultura figurativa del passato è un altro dialogo tra i due stessi personaggi, con la porta di una camera sulla sinistra che allunga lo spazio della scena in profondità, di quinta, in una sorta di veduta a cannocchiale manierista, dal cui fondo avanza Athos fino al proscenio, dov'è Draifa.
Un più esplicito omaggio alla pittura rinascimentale, peraltro, è inserito nella sequenza in cui Athos perlustra una casa buia e abbandonata dove trova, sotto un intonaco, illuminandolo con un fiammifero, l'affresco con un volto della Vergine, in cui è agevole riconoscere L'annunziata di Antonello da Messina (anche se quella conservata a Palazzo Abatellis di Palermo è una tavola).
La pittura, infine, apre anche l'inizio del film, i cui titoli di testa scorrono su diverse opere di Antonio Ligabue in cui si susseguono dettagli di molteplici animali inseriti nei consueti paesaggi naif dell'artista italo-svizzero.
Nella Strategia del ragno, però, non è solo l'arte figurativa ad influenzare il regista, che naturalmente si lascia andare anche ad evocazioni letterarie.

La morte di Athos è stata preannunciata in due modi che ricalcano opere shakespeariane: una zingara che rimanda al Macbeth; e una lettera trovatagli nella giacca, proprio come nel Giulio Cesare.

Non può mancare la poesia, con cui Bernardo si formò accanto al padre poeta. Un bambino recita La cavalla storna di Giovanni Pascoli, non a caso uno dei modelli di Attilio Bertolucci. Tutto questo, però, non toglie che il regista realizzando il film, poco dopo aver iniziato la psicanalisi freudiana, dichiarò come Tara rappresentasse "la rinuncia a Parma, forse perché il bisogno di condannare la cultura paterna io l'ho sentito in modo particolare, e credo sia presente in tutti i miei film". E, così, anche l'immagine di Athos che cancella il nome del padre dalla sua lapide, e che poi lo celebra dedicandogli una targa commemorativa, assume un significato autobiografico nella vita del regista.
E, infine, il cinema: di Tara e Via col vento si è già detto; all'arena di Costa sono in bella evidenza un paio di locandine, quella de L'occhio caldo del cielo (Aldrich 1961), western con Rock Hudson, Kirk Douglas e Joseph Cotten, e quella de La valle del mistero (Leytes 1967), pellicola catastrofista decisamente inferiore.
L'arena in cui Costa e Athos dialogano è solo uno dei luoghi in cui realtà e finzione si confondono: tutto è scenografia, a partire da Sabbioneta, città fondata ex novo da Vespasiano Gonzaga, spazio scenico all'aperto con la sua piazza  ducale e non solo; e poi il vero teatro con i suoi palchi (qui Bertolucci evita di girare nel Teatro Olimpico della cittadina lombarda, forse troppo identitario e preferisce quello di Fidenza, non a caso intitolato ad un Magnani, ma Girolamo); da uno dei palchetti parla Beccaccia, qui è morto Athos e qui è ambientata la parte finale del film, in cui la musica verdiana del Rigoletto "evade" dal teatro, fino ad investire con gli altoparlanti l'intero paese, il vero teatro di Athos Magnani, eroe e traditore allo stesso tempo.
La tela si intrica sempre più e il giovane Athos rischia di esserne vittima... mai titolo fu più azzeccato. 

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