venerdì 13 novembre 2015

Mustang (Ergüven 2015)

Una ragazzina si lascia rotolare nel prato, poi la mdp stacca su un'altra inquadratura, ma in quei pochi secondi c'è tanto di Mustang, opera prima della regista turca Deniz Gamze Ergüven, feroce critica contro un sistema di pensiero arcaico e che relega le donne al ruolo di "angeli del focolare domestico".
Naturalmente la scena appena descritta è totalmente ripresa da Mouchette (Bresson 1967), capolavoro del cinema francese in cui la protagonista viveva una condizione di oppressione molto simile a quella delle cinque sorelle rimaste orfane e cresciute con la nonna e lo zio che animano le vicende di Mustang, titolo che non a caso rimanda alla famosa razza di cavalli del far west che letteralmente vuol dire "non domati".
Che la Ergüven si sia formata cinematograficamente in Francia è evidente non solo per la citazione bressoniana, ma anche per l'inserimento - a dir la verità piuttosto didascalico - di una cartolina con La libertà guida il popolo di Delacroix (1830), tra gli oggetti "proibiti" che vengono sequestrati alle ragazze, ritenute troppo libertine, al pari di telefoni, computer e tanto altro ancora.
Ed è proprio la Francia, che dopo averlo visto presentare a Cannes, ha deciso di candidarlo come miglior film straniero alla prossima notte degli Oscar americani. E indubbiamente la pellicola della Ergüven sembra essere perfetta anche per il pubblico a stelle e strisce, a cui strizza l'occhio non solo con il titolo, ma anche per una condanna manichea e senza appello dell'universo islamico. Una novella storia riveduta e corretta di Piccole donne imprigionate in casa e limitate nella propria libertà, che non può non far pensare ad un'altra celebre opera prima come Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (1999), ripresa nel soggetto e nel numero delle ragazze protagoniste che, peraltro, in una delle immagini portanti del film, vengono inquadrate in gruppo dal basso proprio come una squadra di football americano e come, per chiunque abbia amato i telefilm anni '80, accadeva ai componenti della famiglia Bradford! 
Confronti impossibili: Mustang-Famiglia Bradford
La trentenne regista di Ankara, inoltre, sembra avere ben presenti altri film in cui i ruoli femminili hanno uno spazio rilevante, e tra questi Melancholia (Von Trier 2011), citato nell'inquadratura di una delle giovani spose dall'alto e con lo sguardo perso nel vuoto, proprio come il personaggio di Kirsten Dunst dell'illustre precedente, e Persona (Bergman 1966), ripreso in un'inquadratura che mostra due delle sorelle frontalmente e di profilo proprio come il grande Ingmar faceva con i volti di Bibi Andersson e di Liv Ullmann.
Anche la colonna sonora di Warren Ellis contribuisce all'atmosfera del film, con brani come Lale's Theme, Window the World, ma su tutte la bellissima Moving on, composta insieme a Nick Cave (per l'intera colonna sonora clicca qui).  

Lale (Güneş Şensoy), la più piccola e allo stesso la più combattiva, Nur (Doğa Doğuşlu), Ece (Elit İşcan), Selma (Tuğba Sunguroğlu) e Sonay (İlayda Akdoğan), sono in ordine di età le cinque fanciulle che devono vedersela con la nonna (Nihal Koldaş) e lo zio Erol (Ayberk Pekcan), che ostacolano in tutti i modi la loro voglia di crescere al passo con i tempi. Entrambi hanno una mentalità profondamente conservatrice, acuita dalla piccola realtà rurale in cui vivono, a mille chilometri dalla capitale Istanbul, ma se la prima talvolta prova a giustificare o quantomeno a difendere le nipoti, il secondo è un padre padrone che vede nelle ragazze solo il rischio di veder disonorato il proprio nome. 
E come spesso capita in contesti così retrogradi, basta una malignità di una vicina a scatenare l'onta del disonore, che in questo caso è dovuta ad un ritorno da scuola durante il quale le ragazze si intrattengono a giocare con i compagni maschi. Da quel momento in poi ogni mezzo sarà lecito pur di salvaguardare l'onore della famiglia: come già detto, il sequestro di tutto ciò che possa permettere alle ragazze un contatto con la modernità, ma anche violenza fisica e psicologica, fino alla visita ginecologica che garantisca con un documento l'intatta verginità, nonché un adattamento dell'abitazione che viene appositamente dotata di inferriate e cancelli.
Il passo successivo, naturalmente, sarà trovare marito per dare una "posizione" alle ragazze: la Ergüven mostra per ben quattro volte la ritualità del momento, che passa rapidamente, e spesso senza preavviso, dall'arrivo dei familiari del promesso sposo al matrimonio vero e proprio. Tutto viene deciso dalle famiglie e alle future spose, assolutamente intercambiabili se in "età da marito", spetta solo il compito di mostrarsi docili e servizievoli. Lale, però, non riesce proprio a capire come facciano le sue sorelle maggiori ad accettare questa situazione e, dopo averne viste troppe, decide di dire basta una volta per tutte e di trovare il modo di scappare alla volta di Istanbul...   

È indubbiamente Lale la protagonista tra le protagoniste sin dall'inizio: è lei che urla alla donna che le ha accusate di essersi intrattenute con dei ragazzi di indossare un "vestito color merda senza forma"; è sua la voce off che ogni tanto descrive con rabbia quello che accade ("la casa si trasformò in una fabbrica di casalinghe di massima sicurezza"); è lei che chiede a Osman (Erol Afşin), un ragazzo conosciuto per caso, di insegnarle a guidare l'auto, altro simbolo di indipendenza che potrà tornarle utile (e lo fa peraltro con le scarpe rosse di un mito statunitense, la Dorothy de Il mago di Oz - Fleming 1939); ma è soprattutto lei che convince le sorelle ad andare a vedere una partita di calcio del Trabzonspor allo stadio, evento che si trasforma in un'avventura indimenticabile per tutte. Non è un caso, quindi, che proprio in questa occasione Lale pronunci la battuta che meglio riassume il film e l'immobilismo fisico e mentale a cui sono costrette le ragazze, quando di fronte alla paura di una delle sorelle - "ci faranno a pezzi" - prorompe in un liberatorio "che lo facessero, almeno sarà successo qualcosa"...

2 commenti:

  1. La prima impressione, all’uscita dalla sala, è certamente quella di aver visto un bel film, o almeno così è successo a me. Giusta dose di commozione, giusta dose di momenti che alleggeriscono, giusti ritmi per una storia drammatica. Bello. Bello a parte quell’odore di faziosità che ha accompagnato tutta la visione: dedicare un film alla segregazione femminile nel mondo islamico in questo momento mi è parso immediatamente sospetto nel senso di volutamente destinato ad intercettare i malumori del mondo occidentale e a parlare direttamente alla pancia (del pubblico così come delle giurie dei premi cinematografici). Questo “tarlo” ha preso poi forma ripensando a mente fredda alla pellicola: la critica nei confronti della società in cui si svolge la vicenda è feroce (comprensibilmente) e totale (questo meno comprensibilmente). In questa storia non uno degli aspetti di quella cultura viene salvato, non c’è alcuna indulgenza per la tradizione e, anzi, nella fin troppo didascalica scena in cui tra gli oggetti “peccaminosi” rimossi dalla stanza delle sorelle compare, con un’inquadratura stretta, una riproduzione de “La libertà guida il popolo” di Delacroix l’intento di contrapposizione è palesemente svelato. In un momento storico in cui proprio le persone nate in una cultura e formatesi in un’altra, come è la regista di questo film, potrebbero servire come tasselli utili alla costruzione di ponti, o quanto meno a proporre dinamiche dialettiche, una scelta di campo così netta risulta a mio parere deludente.
    Tutto questo è ciò che ho potuto pensare autonomamente. La lettura di questa recensione ha poi aggiunto fattori penalizzanti per il film (anche se non credo fosse nelle intenzioni del buon Begood). Partendo dalla mia considerazione della trattazione del soggetto come un po’ tranchant, come ho spiegato, vedere evidenziate in questa recensione le tante, oserei dire troppe citazioni quasi pedisseque da più o meno grandi maestri del cinema precedente ha definitivamente traslato questa pellicola, per la mia considerazione, nel mondo del “manierismo”. Creo una storia commuovente, strizzo un occhio al sentire anti-islamico e l’altro alla lotta femminista; cito un po’ Bresson, un po’ Von Trier; do una conformazione circolare alla storia, che inizia con il pianto di Lale, non casualmente scaturito dalla separazione dalla professoressa (simbolo un po’ scontato della cultura che rende liberi) e che finisce con l’abbraccio salvifico della stessa… ed ecco confezionato un prodotto da oscar. Un piacevole prodotto, ripeto, ma a conti fatti un po’ banale, se non addirittura disonesto.
    Specifico che ho visto il film e ho tentato di scrivere questo commento (ma questo blog mi odia e mi cancella) prima dei tragici fatti di Parigi, dopo i quali trattare in questi termini di questo film è più delicato e me ne scuso.

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  2. Grazie Stefy,
    alla fine il tuo commento ce l'ha fatta! E complimenti per la chiarezza. Sono quasi completamente d'accordo con te. Il film non rimarrà nella memoria per molto tempo e credo che colpirà le giurie occidentali, ma non escludo che sia proprio quella la visione della regista. Forse la disonestà per una pellicola come questa mi sembra un'espressione un po' forte.
    Sicuramente, invece, il "manierismo" non riesco a vederlo come un difetto, saper scegliere belle immagini o inquadrature lo reputo sempre un pregio...

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