sabato 26 settembre 2015

Inside Out (Docter 2015)

L'ultimo cartone della Pixar è bellissimo!
Dov'è la novità? È nel fatto che questa volta non ci sono automobili, robot o animali antropomorfi, poiché è stato compiuto un ulteriore passo umanizzando le emozioni, come se esistesse una vera e propria torre di controllo nel cervello di ogni persona.
L'idea portata sullo schermo da Pete Docter - già ideatore del soggetto dei due Toy Story e di Wall-E (1995, 1999, 2008) e regista di Mosters & co. e Up (2001 e 2006) -, coadiuvato alla regia da Ronnie del Carmen, è quella strepitosa di Woody Allen in Tutto quello che avreste sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (1972), anche se qui naturalmente cambia il contesto e soprattutto la durata è ben maggiore, dato che nell'illustre precedente la trovata veniva utilizzata solo per un episodio, anche se il più famoso del film (vedi).

Riley è una dodicenne costretta a trasferirsi con i genitori dal Minnesota a San Francisco, uno stravolgimento che ad un passo dall'adolescenza è quantomai burrascoso. A gestire le sue emozioni, o meglio a viverle e a costituirle "in prima persona", ci sono Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia, che sono i reali protagonisti del film.
Le cinque emozioni che dal "quartier generale" guidano e reagiscono a tutto ciò che accade nella vita di Riley sono caratterizzate da colori e da personalità ben precise. Le due principali, e ovviamente contrapposte, sono Gioia, giallo-oro, dai capelli blu, la più solare, sorridente e ottimista delle emozioni, la leader indiscussa del gruppo, e Tristezza, naturalmente blu (in inglese blue=triste), cupa, secchiona, grassottella e con gli occhiali, a differenza della bella e ginnica Gioia, una figura a metà tra la Velma del cartone Scooby-doo, con tanto di maglione a collo alto, e la Marjorie interpretata da Barbara Bel Geddes in Vertigo di Alfred Hitchcock, l'amica di Scottie-James Stewart, palesemente ma segretamente innamorata di lui. 
Le altre tre sono Paura, viola, un ometto magro, vestito a quadri, con il papillon e un lunghissimo naso, continuamente spaventato da ogni cosa, che però è anche garanzia di sicurezza per Riley; Disgusto, verde, ossessionata dai broccoli, peraltro unico ingrediente in una pizzeria salutista di San Francisco e che fanno capolino persino negli incubi di Riley; Rabbia, rosso, che riprende lo stereotipo del commissario statunitense, pantaloni, camicia rigorosamente a maniche corte e cravatta, che prende il comando della plancia con la testa infuocata ogni qualvolta ci sia da rispondere senza mezzi termini a genitori e amici, e che definisce San Francisco San Fran Schifo (in inglese Saint Fran Stink Town).

Le idee brillanti del film, però, non si fermano qui, poiché l'intera struttura della mente di Riley è ben concepita da una fantasia immaginifica a cui la Pixar ci ha ormai abituato da tempo. Mi riferisco ai ricordi, ad esempio, che si generano mentre si vive momento per momento e si cristallizzano in biglie caratterizzate dal colore di una delle emozioni portanti, cosicché va da sé che per tutta l'infanzia, che vediamo in un veloce montaggio iniziale, siano dorate, ma poi vengono intaccate dalle altre (e soprattutto da Tristezza, che le rende blue al suo semplice tocco). Tutte le biglie finiscono nella memoria a lungo termine, una sorta di enorme archivio da cui vengono eliminate da due operatori che le selezionano quando ritenute non più importanti e le risucchiano con un aspiratore facendole confluire nella "discarica dei pensieri", dove diventano inerti e prive di colore. 
Rischiano di finire nello stesso fosso - dove ci sono persino i déjà vu - anche le isole della personalità, che nel caso di Riley sono quelle della Famiglia, dell'Amicizia, dell'Onestà, dell'Hockey (il suo sport) e della fantastica Stupidera, l'isola del gioco e del divertimento, dall'evocativo nome spagnolo. Splendido il lavoro fatto sulle immagini-simbolo nella resa delle isole: la famiglia ha una grande scultura con madre, padre e figlia abbracciati; l'onestà un tempio classico e la bilancia della Giustizia; l'hockey la mazza e il casco; la stupidera un clown con gli occhi storti.
Un ultimo e fondamentale personaggio è Bing Bong, l'amico immaginario dell'infanzia di Riley, metà gatto e metà elefante, che piange caramelle, che verrà imprigionato nel subconscio - "dove portano i piantagrane" e in cui resta chiuso in una cella sopra un Clown che tanto ricorda l'It di Stephen King (Lee Wallace 1990) -, ma che, con Gioia, avrà un importante ruolo nel far recuperare umore ed equilibrio alla protagonista dopo la crisi pre-adolescenziale.
Il film ha altri momenti bellissimi ed alcuni evidentemente più diretti ai genitori dei bambini che ai bambini stessi: lo stesso Bing Bong, di fronte al rischio che opinioni e fatti si mischino, sentenzia con un laconico e sarcastico "accade di continuo", ma i due elementi più significativi sono indubbiamente la parte dedicata alla cineproduzione dei sogni e al pensiero astratto.
La prima è una ripresa di Hollywood, con tanto di diva (un unicorno femmina sorpresa a mangiare di nascosto) e di studios in cui si girano pellicole esclusivamente in soggettiva da trasmettere a Riley quando dorme: magnifico l'incubo che denota insicurezza e vulnerabilità, tipico dell'immaginario collettivo, con la ragazzina che si ritrova in classe senza pantaloni e con i denti che le cascano, e che vede anche mr. Paura durante il suo turno di notte, sbadigliando proprio perché sia tratta di un film banale e "già visto"! 
Il secondo è una scorciatoia segnalata da cartelli di pericolo, in cui i personaggi si trasformano in progressive semplificazioni grafiche che li portano prima ad essere figure a grossi cubi, quindi bidimensionali e infine delle semplici linee colorate: Picasso, Mirò, Kandinskij e Mondrian in un colpo solo... meraviglie dell'animazione!
Un difetto, però, a volerlo cercare anche se con molta fatica forse c'è e, oltre ai frequenti ammiccamenti intellettualistici al pubblico adulto, che possono essere letti anche come dei sottotesti che non pregiudicano la comprensione del film da parte dei bambini, sembra ammetterlo anche Docter con i titoli di coda.
Il regista, infatti, alla fine ci mostra diversi quartier generali di altri cervelli: non solo quelli del padre e della madre di Riley - gli unici che peraltro vediamo in una sequenza fantastica del film con le emozioni paterne, tutte intente a guardare una partita di calcio, risvegliate da quelle della moglie, su cui pende il continuo rimpianto di aver rifiutato un passionale amante latino -, ma anche quelle di cani e gatti... quasi a dimostrare di non aver sfruttato a sufficienza l'idea attorno a cui ruota l'intero film. Peccato, ma forse si tratta solo di un mezzo, figlio della serialità televisiva, in cui si nasconde un'anticipazione di un futuro progetto a più personaggi, che speriamo possa rimanere all'altezza di questo!

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