sabato 5 settembre 2015

Viaggio a Tokyo (Ozu 1953)

Esiste il cinema e poi esiste quello che ha fatto Yasujiro Ozu...
Colui che si autodefiniva "un venditore di tofu" è stato, infatti, spesso omaggiato da frasi a dir poco adoranti dai suoi stessi colleghi registi, come quella di Wim Wenders che, nel suo documentario Tokyo ga (1985) parlò delle opere di Ozu come di un «sacro tesoro del cinema», oppure quella di Aki Kaurismaki, che decise di segnare la distanza del proprio cinema da quello del maestro giapponese affermando «fin qui ho fatto undici film orrendi, e ho deciso di farne altri 30 perché mi rifiuto di esser sepolto se prima non ho dimostrato a me stesso che non riuscirò mai a raggiungere il tuo livello, Sig. Ozu» (trailer).
Oggi, grazie alla casa nipponica Shochiku che li ha restaurati e alla Tucker film che li ha acquistati per la distribuzione in Italia, possiamo ammirare sul grande schermo, anche nel nostro paese dove non erano mai usciti nelle sale, sei capolavori del maestro giapponese.
Per molti cineasti e appassionati di cinema Tokyo monogatari - questo il titolo originale di Viaggio a Tokyo - non solo è il più bel film di Ozu, ma è uno dei migliori film della storia del cinema, con la sua semplicità, con la sua pacata serenità, le sue inquadrature impostate sulla prospettiva centrale, spesso riprese dal basso, a costituire dei tableaux vivants con gli attori che svolgono una funzione quasi geometrica nella perfetta messa in scena, oppure nei frequenti campi vuoti che fanno spesso da transizione e che diventano spazi per nature morte sensazionali, in cui trovano posto bottiglie, ciabatte, ventilatori, una pendola e persino un triciclo. Un discorso a parte merita l'immancabile fissità della mdp, che in oltre due ore fa un unico e breve movimento che cade all'incirca alla metà della durata della pellicola, quando si sposta verso destra in un carrello di pochi metri per passare dall'inquadratura di un muro ad un prato su cui sono seduti i due anziani genitori protagonisti della storia. 

Il tema affrontato è quello della crisi della famiglia tradizionale, topos del cinema di Ozu, in questo caso evidenziato dal viaggio dei coniugi Shūkichi e Tomi Hirayama (Chishū Ryū e Chieko Higashiyama), che si recano dalla piccola cittadina di Onomichi, vicino Hiroshima, alla capitale Tokyo, dove abitano il primogenito Kōichi (Sō Yamamura), medico, sposato e con due figli, e la secondogenita Shige (Haruko Sugimura), sposata e che lavora come parrucchiera. Qui i due si renderanno conto di essere un peso per i figli e, nonostante la sincera ospitalità di Noriko (Setsuko Hara), già moglie del loro terzo figlio, Shoji, morto durante la Seconda guerra mondiale, decideranno di tornare a casa prima del tempo. Durante il viaggio di ritorno, a causa di un malore di Tomi, l'anziana coppia dovrà fare tappa a Osaka, dove vive il loro quarto figlio, e infine raggiungeranno di nuovo casa, dove riabbracceranno la loro ultimogenita, Kyōko (Kyōko Kagawa), che vive ancora con loro. Ma le condizioni di Tomi peggioreranno...

È incredibile come tutto quello che venga raccontato da Ozu in questo film, ad oltre sessant'anni di distanza, appaia attuale: il regista coglie l'essenza dei rapporti tra genitori e figli, tra fratelli, tra caratteri dominanti e caratteri remissivi, tra l'impetuosità e l'idealismo dei più giovani e l'accettazione, intrisa di serenità o cinismo a seconda delle indoli, di chi ha più esperienza.
Gli anziani genitori vengono ospitati a turno dai figli, ma purtroppo gli impegni di Kōichi e Shige spingono i due fratelli a mandarli in vacanza alle terme di Atami dove, però, non si trovano a loro agio e non riescono a riposare; i fratelli si rimpallano le responsabilità e Shige, indubbiamente il personaggio più negativo e cinico - eviterà persino di rivelare ad una cliente chi siano i due ospiti facendoli passare per degli amici -, non esita a chiedere più volte aiuto a Noriko, che vive sola, nella casa più piccola e che è l'unica lavoratrice a dover dar conto ad un capo-ufficio.
Lascia davvero senza parole, infine, considerando Ozu un uomo del suo tempo, vissuto in un mondo così tradizionalista come il Giappone, il ruolo di Noriko, la nuora rimasta vedova, a cui i due anziani coniugi in momenti diversi riconosceranno di essere stata più disponibile e più generosa dei loro stessi figli. Il sorriso con cui Noriko affronta le difficoltà della sua vita e le continue richieste di sua cognata Shige - è indicativo che la vediamo commuoversi pensando al marito solo di notte, quando nessuno può vederla - sono l'esatto opposto della rabbia che la figlia più piccola degli Hirayama, Kyoko, mostrerà proprio a lei sfogandosi sui comportamenti egoisti dei fratelli maggiori. Noriko, a differenza della giovane cognata, accetta l'inevitabile evoluzione della vita, l'effimera sostanza delle cose, la mutevolezza della natura umana, e risponde con saggezza "anch'io pensavo come te quando avevo la tua età, ma è vero che crescendo i figli finiscono fatalmente per allontanarsi dai propri genitori [...] Non è che lo voglia, ma finirò anch'io così".
Dal canto loro i genitori appaiono costantemente delusi dalla vita dei figli, che abitano troppo lontano dal centro di Tokyo, che fanno lavori meno "importanti" di quanto credessero e che sono cambiati tantissimo, e in peggio, rispetto a quando erano a casa con loro: come sentenzia papà Shūkichi "i figli tradiscono sempre le aspettative dei genitori". Eppure, in fondo, i due si dichiarano comunque soddisfatti dei loro ragazzi.
In questo contesto, c'è spazio anche per il ribaltamento dei ruoli, come dimostra la sequenza in cui lo stesso Shūkichi passa una serata con due vecchi amici - con cui peraltro condivide la delusione per i figli - e finisce per ubriacarsi al punto da essere condotto da un poliziotto fino a casa di Shige, che infuriata lo sgriderà come una mamma farebbe con un figlio.

La laica sacralità riconosciuta a Ozu da Wim Wenders nel già citato Tokyo ga è tutta nell'universalità del suo messaggio: la nostalgia per la famiglia tradizionale giapponese e per l'identità nazionale che rispetto agli anni venti, in cui il regista nipponico aveva iniziato la sua carriera, stava svanendo sempre più. Nell'evidente identificazione di Ozu con i due coniugi Hirayama si palesa la volontà di un ritorno a ritmi di vita più bassi, facilmente leggibile nella struttura stessa del film, che racconta un percorso che si allontana dalla provincia per approdare alla città, per poi ritornare con ancora più convinzione alla campagna, proprio come accadeva ai personaggi di Inizio d'estate (1951), che in molti casi, peraltro, avevano gli stessi nomi di quelli del film del 1953.
Ed è ancora più indicativo che la prima immagine di Tokyo, dopo il prologo ambientato nella casa di Onomichi, sia quelle delle ciminiere di una fabbrica, simbolo dell'industrializzazione della città, e che a tale inquadratura corrisponda un drammatico contrappunto musicale: da quell'arrivo nella metropoli non potrà derivare nulla di positivo... È proprio la modernità, la vita frenetica della metropoli, quella che renderà impossibile il soggiorno dei due genitori.
In questa immagine il regista giapponese dimostra per l'ennesima volta di saper concepire un cinema assoluto, in cui le immagini parlano al posto della sceneggiatura, una capacità tipica di chi, come lui, quel cinema privo di dialoghi l'aveva fatto decenni prima.
Yasujiro Ozu è stato senza alcun dubbio uno dei grandi cineasti-poeti del XX secolo e Viaggio a Tokyo una delle sue poesie più riuscite!

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