La regista tedesca Margarethe von Trotta gira un film che declina al femminile la storia dell'olocausto, prendendo come spunto le proteste che un nutrito gruppo di donne tedesche portò avanti tra il febbraio e il marzo 1943 nella strada di Berlino che dà il titolo alla pellicola, con l'obiettivo di far liberare i propri mariti ebrei catturati dalla Gestapo.
Il film parte da lontano, dall'età contemporanea, con una famiglia ebrea di New York che sta dando l'estremo saluto al pater familias, Robert: la vedova, Ruth (Jutta Lampe), mai stata molto religiosa, diventa improvvisamente osservante e tradizionalista, tra lo stupore dei figli e soprattutto di Hannah (Maria Schrader), che proprio in quest'occasione conosce Rachel, una persona che sa qualcosa del passato di sua madre a lei ignoto.
È questo l'incipit delle ricerche di Hannah che, fingendosi una studiosa di storia, andrà in Germania per intervistare Lena Fischer (Doris Schade e, da giovane, Katja Riemann), la donna che durante la Seconda guerra mondiale salvò la piccola Ruth (Svea Lohde), figlia di una coppia di ebrei deportati.
Questo l'escamotage narrativo che permette alla regista tedesca di arrivare al fatto di cronaca che costituisce il fulcro del soggetto della pellicola: la Fischer, ovviamente, è una delle donne tedesche sposate con un ebreo, che si ritroverà a manifestare a Rosenstrasse.
Il film, grazie al montaggio di Corinna Dietz, alterna le due fasi storiche distanti sessant'anni attraverso continui flashback, ma si può dire che sia davvero solo questo elemento l'unico tentativo di dare dinamicità ad una pellicola che non brilla, né per il ritmo, né per la prova degli attori - in cui fa eccezione Katia Riemann che vinse il Leone d'oro a Venezia -, né per la fotografia di Franz Rath, piuttosto televisiva, né tantomeno per la regia, piatta e senza sussulti. Nonostante l'argomento, che pure li favorirebbe, azione e dramma sono ridotti al minimo, e gli stessi personaggi sono figure bidimensionali prive dell'approfondimento psicologico che avrebbero meritato. Ne consegue una zoppicante credibilità delle vicende, a cui contribuisce anche una debole sceneggiatura, firmata dalla stessa regista e da Pamela Katz, che peggiora le cose: perché, ad esempio, Ruth riscopre l'ebraismo solo alla morte del marito, tanto più dicendo ai figli, con cui per tutta la vita ha parlato solo in tedesco, "la lingua è l'unica cosa che mi è rimasta di mia madre"?
Difficile, quindi, scovare delle battute che restino nella memoria, ma quelle più significative sono messe in bocca ad alcuni prigionieri, che nel parlare con Fabian, il marito di Lena, dicono: "ci metteranno in un forno come nella favola dei fratelli Grimm", con tanto di citazione Hänsel e Gretel, in cui però era la strega a finire nel forno; oppure "io sono tedesco e aspetto che i tedeschi aprano gli occhi", con un atteggiamento attendista che per lo spettatore che guarda sa di clamoroso errore di valutazione storica.
Rosenstrasse, di fatto, non regge il confronto con i tanti capolavori girati sull'olocausto, dando piuttosto l'idea di essere un film per la tv. Talvolta affrontare un argomento così difficile e così battuto dal grande cinema può essere un'arma a doppio taglio...
Rosenstrasse, di fatto, non regge il confronto con i tanti capolavori girati sull'olocausto, dando piuttosto l'idea di essere un film per la tv. Talvolta affrontare un argomento così difficile e così battuto dal grande cinema può essere un'arma a doppio taglio...
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