lunedì 14 settembre 2015

Sangue del mio sangue (Bellocchio 2015)

Bobbio come centro del mondo, come afferma uno dei personaggi dell'ultimo film di Marco Bellocchio: la piccola cittadina piacentina, in cui il regista è nato e in cui ambientò il suo folgorante esordio (I pugni in tasca, 1965), è teatro delle due storie che si susseguono e in qualche modo si sovrappongono in Sangue del mio sangue, appena presentato alla 72° mostra del cinema di Venezia.
Come in altri casi nella filmografia del cineasta emiliano (si pensi a Enrico IV per esempio), il passato è in relazione col presente, e così nel Seicento il convento di Santa Chiara è il luogo di un processo per stregoneria per la giovane suor Benedetta, colpevole di una relazione amorosa con don Fabrizio, finita col suicidio del frate, mentre nel presente la questione da risolvere sembra essere lo stravolgimento dello status quo del piccolo centro messo in crisi dall'arrivo di un ricco russo che intende acquistare l'edificio delle prigioni.
La ricostruzione seicentesca è piuttosto didascalica e affonda nell'immaginario collettivo storico-artistico e cinefilo: Federico (Pier Giorgio Bellocchio), il fratello gemello di don Fabrizio venuto per riabilitarne la memoria in modo da poterlo seppellire in luogo consacrato, è la riproposizione, anche iconografica, dell'uomo impetuoso, passionale e impulsivo, con cui l'Ottocento ha romanzato l'ideale caravaggesco, mentre suor Benedetta, pur se evidentemente ispirata alla monaca di Monza manzoniana, è apparentabile alla René Falconetti de La passione di Giovanna d'Arco di Carl Theodor Dreyer (1928), imprescindibile punto di riferimento cinematografico per una vicenda come questa.
Il percorso per l'accertamento dell'accordo col demonio da parte di Benedetta (Lidiya Liberman), tra le parti migliori del film, passa attraverso le prove impostele dal priore del convento, Cacciapuoti (Fausto Russo Alesi), e l'inquisitore francescano (Alberto Cracco), che vanno dall'essere gettata in mare per vedere se Satana correrà in suo aiuto - eccezionali le riprese subacque verso lo sperone di roccia in attesa del forzoso tuffo -, alla richiesta di lacrime di pentimento che possano almeno garantirle la salvezza ultraterrena, fino alla confessione, alla prova del fuoco, in cui le eventuali urla di dolore sarebbero interpretabili come conferme di colpevolezza e, infine, all'essere murata viva.
Molto affascinante è anche l'insieme di scene che illustrano il rapporto di Federico con le sorelle Berletti (Alba Rohrwacher e Federica Fracassi), due donne timorate di Dio, ma palesemente attirate dalla sensualità del loro ospite, in un modo morboso ma taciuto del tutto simile a quello delle due sorelle con il re di Roccaforte nel recente Il racconto dei racconti (Garrone 2015). Federico, però, non si getterà in un roseto per placare l'ardore come fatto dal fratello imitando san Francesco e san Benedetto.
Proprio la casa delle due sorelle rappresenta l'edificio delle antiche prigioni - la scoperta delle vere prigioni dell'abbazia di San Colombano è quella che ha ispirato il film - che ai giorni nostri il ricco Rikalkov (Ivan Franek) vorrebbe rilevare, con l'aiuto di un ispettore pubblico (Pier Giorgio Bellocchio). La bizzarria della situazione è amplificata dal fatto che la casa sia segretamente (?) abitata dal conte Basta (Roberto Herlitzka), un sedicente vampiro sornione che, all'ipotesi di una dentiera, risponde dal dentista (Toni Bertorelli), "meglio la morte"!

L'autorialità di Bellocchio si percepisce lungo tutto il film, in virtù delle tematiche, della regia, ma anche dei numerosi riferimenti storico-artistici e quelli più strettamente connessi alla storia del cinema. Tra questi, però, uno dei primi elementi da notare è una piccola disattenzione: quando Federico entra nel chiostro del convento, passa davanti ad una statua di una Maddalena (?) inginocchiata, che è una palese derivazione dalla statua di Canova conservata a Genova (Palazzo Doria-Tursi), ma scolpita sul finire del Settecento, ben oltre l'epoca in cui si svolgono i fatti del film.
Bellissima invece, aldilà delle molte sequenze debitrici di Dreyer nella prima parte della pellicola - penso soprattutto al taglio dei capelli iniziale o alle inquadrature dal basso prima della prova dell'acqua - quella in cui gli inquisitori chiedono le lacrime di Benedetta e si avvicinano al suo volto per controllare bene, riproponendo schemi iconografici costituiti come quelli che raffigurano la Derisione di Cristo (es. Giotto agli Scrovegni), o ancor meglio il Cristo tra i dottori, che qui appare citato nella celebre versione di Albrecht Dürer (Madrid, Museo Thyssen Bornemisza).
L'inquadratura della cella di Benedetta rimasta vuota, invece, è una splendida natura morta degna del cinema a mdp fissa e a prospettiva centrale di Yasujiro Ozu, mentre il momento in cui la donna viene murata viva diventa anche l'occasione per celebrare l'osservazione cinematografica, con uno spazio lasciato libero tra i mattoni che assurge ad un vero e proprio mascherino da cui la mdp offre le soggettive della monaca.
Nella seconda parte del film, il conte Basta, che vive in un'ambigua condizione di incognito con tanto di moglie abbandonata, e al quale verrà proposto di trasferirsi a "non vivere" in riviera, è una sorta di Mattia Pascal surreale: il riferimento a Pirandello è nelle corde di Bellocchio - e penso ancora all'Enrico IV, ma anche a L'uomo dal fiore in bocca (1993) e a La balia (1999) -, così come il rimando alla storia dell'arte con il famoso dipinto di Friedrich L'isola dei morti che compare nella stanza da letto dello stesso personaggio interpretato da Herlitzka. Tutt'intorno si vedono, inoltre, diversi quadri del pittore contemporaneo Roberto Ferri, influenzato da David, Ingres e Bouguerau: i suoi corpi nudi avvinghiati ricordano la scena dantesca di Schicchi e Mirra di quest'ultimo artista francese.
Risulta un po' straniante, invece, la piega grottesca del racconto, con l'arrivo dell'ispettore che mette in allarme l'intera cittadina, in cui proliferano falsi invalidi che temono di perdere i propri privilegi (il finto cieco è ancora Alesi, il matto del villaggio è un istrionico e sopra le righe Filippo Timi), e che sembra governata da un gruppo di oligarchi-massoni, tra cui spicca proprio il conte Basta.
Al dialogo tra questo e il dentista la sceneggatura affida alcune sentenze e riflessioni filosofiche che colpiscono la società moderna, con il dottore che dichiara come ormai "anche i contadini vogliono la fattura", in quella che ritiene una diffusa ossessione per la giustizia, e il conte che rincara la dose affermando che va di moda "mettersi in piazza scambiandosi cazzate (...) la sincerità... altra cazzata".

La seconda parte non convince a pieno, e risulta troppo slegata dalla prima, con la quale ha in comune oltre all'ambientazione e alla riproposizione di diversi attori (compaiono di nuovo anche la Lieberman ed Elena Bellocchio, prima una delle suore e ora sorella dell'ispettore), proprio il tema della vagheggiata giustizia, da assurdo strumento di potere nel passato a ideale sgangherato e sottomesso ad altri interessi oggi, in una continuità vichiana che non lascia speranza per il futuro se non nella sostanziale accettazione della natura umana. E poi, oltre alle complesse allegorie, la bellezza e il desiderio con la loro capacità di controvertire ogni altro valore, come dimostra il montaggio alternato che ci mostra le reazioni del cardinal Federico Mai (Alberto Bellocchio) davanti alla perfetta nudità di Benedetta e del conte Basta che insegue, incantato, la soave Elena (Elena Bellocchio).

Un ultimo accenno ai principali collaboratori del regista emiliano, con Daniele Ciprì che dirige una fotografia impeccabile e Carlo Crivelli che compone le musiche e che nella selezione inserisce una versione soffusa, evanescente, quasi mistica, di Nothing else matters dei Metallica suonata dagli Scala & Kolacny brothers, che fa da trait d'union tra i momenti più toccanti delle due parti della pellicola.
Sicuramente non il miglior Bellocchio, ma c'è davvero tanto Bellocchio in Sangue del mio sangue...

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