martedì 8 settembre 2015

L'avventuriero di Macao (von Sternberg 1952)

Film della piena età dell'oro di Hollywood, Macao, che in italiano ebbe bisogno di un protagonista nel titolo, altrimenti troppo geograficamente astratto, venne prodotto dalla RKO - la major a cui si deve l'esistenza di Quarto potere (Welles 1940) per dirne una - e realizzato dal grande Joseph von Sternberg. Sul titolo, però, in Francia fecero molto peggio trasformandolo in Le Paradis des mauvais garçons, mentre in spagnolo la protagonista divenne la diva con Un aventurera en Macao...
Il regista, indissolubilmente legato al nome di Marlene Dietrich, con cui girò ben sette film, dal 1930 al 1938, contribuendo a trasformarla in una star assoluta, era nato a Vienna nel 1894 in una famiglia ebraica e ancora adolescente era giunto negli Stati Uniti, dove imparò le regole sintattiche di Hollywood, come dimostra ampiamente in questo film, ormai vicino alla fine della carriera, che chiuderà l'anno seguente con L'isola della donna contesa (1953).
Difficile, però, comprendere se ne sia una dimostrazione o meno l'uso delle contrapposizioni cromatiche in maniera drammaturgica, che vedono nel bianco e nero un orizzonte manicheo, didascalico quanto immediato per lo spettatore: da una parte i buoni vestiti di bianco, dall'altra sempre i cattivi in nero, con rare eccezioni (nel finale, per esempio, i due antagonisti sono entrambi in completo bianco). Difficile perché, almeno per questo elemento, non è chiaro se sia dovuto al regista che ha iniziato il film o a quello che fu chiamato dopo di lui a terminarlo rigirando alcune sequenze, come richiesto dall'ingombrante produttore Howard Hughes, proprietario della major RKO e sul cui personaggio Martin Scorsese ha incentrato il suo The Aviator (2004). Certamente la dicotomia cromatica è il sistema significante sfruttato in altri celebri casi e, su tutti, nel bellissimo e di poco successivo, anche se già a colori, Johnny Guitar di Nicholas Ray (1954), proprio colui che mise mano alla stessa pellicola di von Sternberg... un caso?
Peraltro, il cineasta di origine austriaca non doveva amare molto il suo film, se alla domanda di Peter Bogdanovich - "Che cosa è stato cambiato in L'avventuriero di Macao? Da quanto ho saputo, Nick Ray ha rigirato diverse scene" - rispondeva seraficamente "Non so. Non l'ho mai visto".

Leggi la trama:
Lo schema è quello tanto caro al cinema narrativo classico: una diva, Jane Russell, che interpreta Julie Benson, prostituta e cantante al centro delle attenzioni dei personaggi maschili; il divo che la conquista, Robert Mitchum, Nick Cochran; l'antagonista di quest'ultimo, Vincent Halloran (Brad Dexter), un signorotto locale, proprietario di una casa da gioco.
Julie, Nick e Lawrence Trumble (William Bendix), un commesso viaggiatore di mezza età, all'inizio della storia giungono, dopo aver viaggiato ed essersi conosciuti sulla nave proveniente da Hong Kong, a Macao, teatro di tutta la storia narrata, dove sin da subito dovranno scontrarsi con la corruzione che ruota attorno a Vincent, sotto il cui controllo opera anche la guardia doganale Sebastian (Thomas Gomez), un personaggio minore ma fantastico, divertente, meschino, guardone, la cui importanza è confermata dal doppiaggio italiano che ne affida la voce al grandissimo Carlo Romano.
Naturalmente Julie troverà lavoro come cantante nel casinò di Vincent, sposato con Margie (Gloria Grahame), ma che mette gli occhi inevitabilmente sulla nuova arrivata. Le gelosie si incrociano, cosicché Nick riceverà anche l'aiuto della bella Margie, che vuole liberarsi di Julie, conferendo al film una caratterizzazione da noir, anche se in versione esotica, dato il luogo in cui si svolge la vicenda, confermata da una sorprendente rivelazione sulla propria identità da parte di Lawrence, ma soprattutto dalla presenza di un Macguffin, rappresentato da una collana di perle a cui sembrano tutti interessati, ma che ovviamente è a Hong Kong e che nessuno vedrà mai. Come in ogni storia di questo tipo, lo scontro finale tra Nick e Vincent è un epilogo necessario ed immancabile!
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Jane Russell e Robert Mitchum vennero chiamati a interpretare la coppia protagonista di questo film sull'onda del successo che ebbero per Il suo tipo di donna (1951), un'altra pellicola per cui Howard Hughes non si accontentò del lavoro fatto da John Farrow e ritenne necessario l'intervento di un altro regista, Richard Fleischer.
La diva-pin up, che l'anno dopo avrebbe impazzato in coppia con Marylin Monroe ne Gli uomini preferiscono le bionde (Hawks 1953), ripropone il personaggio di bella e dannata al femminile, tanto amato da Hollywood - basti pensare a Gilda (Vidor 1946) a cui sembra rifarsi anche la locandina -, e che era stato in passato proprio di Marlene Dietrich nei film di von Sternberg, su tutti ovviamente L'angelo azzurro (1930): canta tra i tavoli da gioco You kill me e la bellissima One for my baby - nata per Non ti posso dimenticare (Griffith 1943), in cui a cantarla era Fred Astaire, ma resa celeberrima soprattutto per la versione che ne incise Frank Sinatra nel 1947 -e, per un caso del tutto fortuito, in una scena gioca a fare la cartomante, proprio il ruolo che interpreterà proprio la Dietrich qualche anno dopo nell'eccezionale L'infernale Quinlan (Welles 1958).

L'ironia nel film non manca, come testimoniano alcune battute: Lawrence dimostra di essere un uomo di un'altra epoca, anche in virtù di esclamazioni come "per la barba del patriarca", ma è ovviamente a Nick che spettano le linee di sceneggiatura più taglienti. È lui che, sottolineando la capacità di non tradire sentimenti di Margie, le dice "assomigliate a una mia amica egiziana... la sfinge", e soprattutto è lui che, uscito dall'acqua e abbracciato da Julie che lo vede bagnato, le risponde "dovrai pure abituarti a vedere tuo marito uscire dalla doccia"...
Non siamo in un film di Howard Hawks, ma è evidente che questo strano noir strizzi l'occhio alla commedia sofisticata di quegli anni e che Robert Mitchum si ritrovi a recitare battute alla Cary Grant.
La pellicola, che pure funziona, non è indimenticabile e rientra a pieno titolo nella numerosa produzione di maniera di quegli anni, tanto più che, come visto, il tocco di von Sternberg non è pienamente riconoscibile, in parte fuso con quello di Ray, e sostanzialmente oscurato dalle gabbie narrative e sintattiche del cinema classico, che mettono sicurezza allo spettatore, ma che inevitabilmente tendono ad appiattire le differenze da un regista all'altro, in una questione che è spesso croce e delizia di Hollywood...

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