Amos Gitai per il suo ultimo film, presentato fuori concorso a Venezia e coprodotto dall'italiana Citrullo international, prende le mosse dal romanzo di Aharon Appelfeld, Paesaggio con bambina (2009), da cui recupera l'idea di una giovane ragazza ebrea rimasta sola poiché la sua famiglia è stata vittima delle deportazioni naziste, ma ne riduce all'osso la storia, cancellando quasi completamente il suo peregrinare per le campagne dell'Europa orientale.
La Tsili cinematografica, infatti, per sfuggire ai nazisti si rifugia in un bosco, dove vive di bacche e dorme in un giaciglio che si è ricavata tra gli arbusti. Qui incontra un uomo in fuga, Marek, con il quale, nonostante una iniziale incomunicabilità, si trova a riscoprire il contatto fisico, dimostrazione che anche al suono delle bombe la natura prevale sull'assurdità della guerra, e che questa in fondo è, forse, solo un altro aspetto della natura stessa.
La Tsili cinematografica, infatti, per sfuggire ai nazisti si rifugia in un bosco, dove vive di bacche e dorme in un giaciglio che si è ricavata tra gli arbusti. Qui incontra un uomo in fuga, Marek, con il quale, nonostante una iniziale incomunicabilità, si trova a riscoprire il contatto fisico, dimostrazione che anche al suono delle bombe la natura prevale sull'assurdità della guerra, e che questa in fondo è, forse, solo un altro aspetto della natura stessa.
È un film di immagini, bellissime e claustrofobiche, poiché è vero che la storia è ambientata all'esterno, ma per circa due terzi l'esterno è il chiuso del bosco, quello che protegge la sola Tsili prima e Tsili e Marek dopo. Non è un caso, quindi che il luogo in cui la ragazza dorme è qualcosa di molto simile a un nido, una tana o, ancora meglio, un bozzolo nel quale l'abbraccio con Marek ripreso dall'alto rappresenta uno dei momenti più lirici di un film fatto di lirismo. Le riprese dall'alto, utilizzate spesso da Gitai per raccontare le scene in cui Tsili vive nel bosco, ci aiutano a prendere distanza dalla soggettività della protagonista, che vediamo aggirarsi tra le fronde come il Mowgli del Libro della Giungla, ma in maniera decisamente più cupa e disperata. Come una novella Arianna la giovane donna si muove in questo labirinto fatto di alberi, con gli occhi spauriti, tremando come una delle tante foglie che la circondano.L'incontro tra Tsili e Marek è uno dei momenti più intensi del film: la diffidenza della ragazza e la difficoltà di comunicazione iniziale è sintetizzata splendidamente con un'ennesima inquadratura dall'alto che li riprende di spalle, in un atteggiamento di chiusura, che solo il tempo e la "necessità" del contatto fisico riusciranno a sciogliere fino al bellissimo abbraccio già citato, degno di opere d'arte come la Sposa nel vento di Oskar Kokoschka (1914).
Tsili è interpretata da due attrici molto differenti, Sarah Adler e Meshi Olinski: la prima, caratterizzata da tratti somatici più marcati e da movimenti più nervosi e scattanti, impersona la protagonista nella prima parte del film, quella in cui è sola nel bosco, e nella parte finale, fuori dal bosco; la seconda, dai lineamenti più delicati e dal viso più sereno, è la Tsili della sezione centrale del film, che parla tedesco e che si abbandona a Marek (Adam Tsekhman), le cui carezze coincidono con il sopraggiungere della pioggia, in piena empatia con la natura.
In un paio di casi, però, le due attrici appaiono nella stessa inquadratura, aumentando se possibile la sensazione di totale straniamento dello spettatore: quella dell'abbraccio con Marek, con i due che cadono addormentati, e la prima Tsili che arriva come in una fiaba a rimboccargli le coperte, e quella della fuga dal bosco, in cui la corsa è cadenzata dall'alternarsi delle due donne.
Il luogo-non luogo in cui è ambientata la storia è tale fino a questa fuga, dopo la quale domina la scena uno spazio aperto e in cui il cineasta israeliano concede qualche riferimento di contesto: solo da qui in poi, infatti, allo spettatore vengono dati alcuni indizi e solo ora si vedono le divise sovietiche che scortano l'eterno esodo del popolo ebraico. È qui, in una pausa durante il cammino, che uno degli esuli ripete "la morte ci raggiungerà ovunque andremo", in una danza senza tempo come quella di Tsili ripresa su "fondo nero" durante i bei titoli di testa.
Il luogo-non luogo in cui è ambientata la storia è tale fino a questa fuga, dopo la quale domina la scena uno spazio aperto e in cui il cineasta israeliano concede qualche riferimento di contesto: solo da qui in poi, infatti, allo spettatore vengono dati alcuni indizi e solo ora si vedono le divise sovietiche che scortano l'eterno esodo del popolo ebraico. È qui, in una pausa durante il cammino, che uno degli esuli ripete "la morte ci raggiungerà ovunque andremo", in una danza senza tempo come quella di Tsili ripresa su "fondo nero" durante i bei titoli di testa.
Tsili prega Dio di farle incontrare di nuovo Marek e parla con gli altri condannati al suo stesso destino rassicurando una ragazza che ha perso i genitori a cui dice che torneranno in primavera, trasformandosi, così, dall'Arianna della prima parte del film ad una Proserpina che ritorna alla vita con l'alternarsi delle stagioni.
La cultura classica di Gitai si ripete anche nella splendida sequenza del violinista attorno al quale si raccoglie un gruppo di persone, ma chissà se può placare le bestie feroci come Orfeo. L'ennesima prova di capacità registica, infine, è evidente nell'inquadratura dell'ospedale semidistrutto dove si aggira la stessa Tsili, nel finale in cui la voce fuori campo di Lea Koenig descrive immagini poetiche che questa volta non vediamo...
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