Aprire e chiudere una porta, i ricordi vissuti come un presente continuo, aggrapparsi ai luoghi, ai momenti, agli odori e ai sapori, "due caffè e due cioccolate..."
Mathieu Amalric, adattando un lavoro teatrale di Claudine Gale (Je reviens de loin, 2003), torna dietro la mdp con un film di grande potenza, un dramma che fa pensare molto a Kieslowksi, in cui il montaggio di François Gédigier ha un ruolo determinante così come l'eccezionale interpretazione di Vicki Krieps, che già aveva impressionato tutti ne Il filo nascosto (Anderson 2017) e che si conferma davvero un'ottima attrice (trailer).
Clarisse (Vicki Krieps) esce di casa all'alba, mentre il resto della famiglia dorme. Prende l'auto e inizia un lungo viaggio, per vedere il mare, ma anche la montagna e la neve, o forse no. Lì restano il suo compagno, Marc (Arieh Worthalter), e i due figli, Lucie e Paul. Eppure più di una volta sentiremo la donna ripetere "non sono stata io a essermene andata".
Le foto istantanee di una vecchia Polaroid, che Clarisse dispone rigirate sul letto e poi prova ad accoppiare, come in un gioco di memoria, proprio quella, sempre quella, protagonista del film insieme a lei, perché la memoria degli eventi è tutta sua, in piena soggettiva, e forse non è nemmeno memoria.
Lo stesso accade per la musica, spesso suonata da Lucie, che studia pianoforte - nella colonna sonora si alternano brani di Beethoven, Mozart, Chopin, Debussy, Ravel, Rachmaninov -, una musica extradiegetica, che, quando Clarisse è in auto, diventa intradiegetica, perché la protagonista sta ascoltando al cellulare la figlia che suona a casa.
E in questa continua soggettività del punto di vista di Clarisse, l'ambiguità percepita non può non aumentare in chi guarda e si ritrova a seguire le tappe della donna, tra Francia e Spagna, in tempi diversi, alternati alla vita di marito e figli, proseguita senza di lei, con Lucie e Paul adolescenti... Cosa è vero e cosa non lo è? Si tratta di ricordi reali o di proiezioni di quello che sarebbe potuto essere e non è mai stato? Perché sulla neve dei Pirenei, dove la famiglia andava insieme in vacanza, ripetendo gesti e parole, utilizzando la stessa stanza con due letti a castello, per genitori e figli, è accaduto ciò che non doveva accadere.
Tra i tanti flashback e flashforward, Amalric ci mostra anche il primo incontro di Clarisse con Marc, in discoteca, che si chiude con i due che vanno via in auto, dalla quale, con un'ellissi temporale, vediamo uscire subito dopo Clarisse durante il suo viaggio in solitaria. L'auto è una AMC Pacer del 1978 o del 1979, come dichiara la donna quando un agente immobiliare la vede e se ne interessa, e in qualche modo svolge un ruolo analogo a quello della Saab 900 turbo che accompagna il protagonista di Drive my car (Hamaguchi 2021): l'auto come compagna silenziosa di chi è solo.
I simboli, le singole immagini, per Amalric sono fondamentali: dalle mani di Clarisse e Marc che si toccano da un piano all'altro del letto a castello, per poi fare l'amore in silenzio, evitando che i figli li sentano, alla mano di Clarisse che pende nel vuoto, quando il compagno non è più lì con lei; dalla bellissima inquadratura incorniciata dal ramo di un albero, al cielo grigio e nuvoloso che Clarisse vede dal parabrezza e che riflette il suo stato d'animo, come in un quadro espressionista.
C'è anche un po' di arte moderna nella pellicola, con il poster che riproduce un'opera di Robert Bechtle, Foster's Freeze (1975), una mamma con due figli, una femmina e un maschio. L'immagine compare nella stanza di Lucie, proprio lei, che in una telefonata dice alla madre che lascerà la porta sul retro aperta, in modo che possa entrare quando vuole, almeno per salutare Paul che soffre la sua assenza, bambina troppo orgogliosa per ammettere il suo desiderio. E non a caso è lei che in una scena ripercorre i profili delle figure del dipinto fotorealista con le dita, ricordando, senza l'ausilio di alcuna linea di sceneggiatura, il tempo in cui lei e Paul erano con Clarisse.
Robert Bechtle, Foster's Freeze, 1975 |
Quest'attenzione alle opere che si connettono alla vicenda narrata sembra ripetersi sul finire del film, quando Clarisse si lascia cadere, senza forze, come la Vergine sotto la croce, sorretta dai presenti, che la sorreggono, con le gambe dritte e l'intero corpo in diagonale, come il Lazzaro messinese di Caravaggio (Museo Regionale), in una consonanza figurativa che, se non cercata, appare davvero sorprendente per la stretta analogia iconografica.
Stringimi forte è un film circolare, all'interno della cui estensione i frammenti della storia appaiono in ordine sparso, in un racconto destrutturato che sta allo spettatore interpretare e rimontare, tentando di rimetterli a posto e di distinguere quelli veri da quelli frutto della fantasia e del dolore, prima che Clarisse richiuda quella porta a chiave e vada via con la partitura di Per Elisa...
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