martedì 26 ottobre 2021

Drive my car (Hamaguchi 2021)

Dopo il bellissimo Il gioco del destino e della fantasia (2021), Ryusuke Hamaguchi continua la sua analisi dei rapporti di coppia adattando, stavolta, l'omonimo racconto di Haruki Murakami - omaggio alla Drive my car dei Beatles - inserito nella raccolta Uomini senza donne (2014). E in effetti la lunga premessa - i titoli di testa compaiono dopo 45 minuti di pellicola - rende l'attore e regista Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima, nel 2002 protagonista dell'indimenticabile Dolls di Takeshi Kitano) un uomo senza moglie. Il protagonista prima trova la donna che ha sposato, la sceneggiatrice Oto (Reika Kirishima), a letto con un altro, e poi è costretto a separarsene per sempre a causa della sua improvvisa morte per emorragia cerebrale (trailer).
È solo allora che inizia la vicenda principale, ambientata due anni dopo, quando Yusuke è chiamato a dirigere Zio Vanja di Cechov per il festival di Hiroshima dove, nonostante chieda di poter guidare la sua vecchia Saab 900 turbo, nella quale è abituato ad ascoltare e ripetere i copioni registrati ancora su musicassette, è costretto ad assumere un'autista, la giovane e triste Misaki Watari (Tōko Miura), con cui piano piano si aprirà, come sottolinea una delle più belle immagini del film, che immortala le loro mani con una sigaretta accesa che spuntano dal tetto dell'auto... Tutti hanno delle cicatrici nel loro passato, ma con molta lentezza e con i tempi giusti per ognuno, quelle cicatrici, che rappresentano sensi di colpa e memoria, possono essere cancellate, anche fisicamente.
Hamaguchi narra con le immagini in maniera sopraffina e, pur se trae il suo film da un testo letterario e la sceneggiatura, scritta insieme Takamasa Oe, ha conquistato il Prix du scénario a Cannes, i silenzi spesso dicono molto più delle parole. 
La Saab è più volte iconograficamente protagonista, non solo nell'immagine già citata, ma anche per una notevole ellissi, che, dopo un dettaglio dello sportello con Yusuke alla guida, mostra l'intero dell'auto per associare le sue ruote ai rocchetti della musicassetta con cui l'attore-regista studia il copione.
Anche le inquadrature vuote alla Ozu sono una costante - come nel film precedente - e la sequenza in cui Yusuke torna a casa, perché il suo aereo è stato cancellato e la partenza rinviata all'indomani, vale mille linee di testo. Al rientro trova Oto che fa l'amore con un giovane attore, Kōji Takatsuki (Masaki Okada), ma non dice nulla; nessuno dei due amanti, che Yusuke vede attraverso un gioco di specchi, si accorge della sua presenza, e lui torna verso l'aeroporto di Narita e prende una camera d'albergo. Solo allora lo risentiremo parlare, durante una videotelefonata on line con la moglie, come se nulla fosse accaduto e fosse giunto a destinazione. 
È il suo modo d'amare, sa che la moglie cede a occasioni come quella, ma il loro rapporto è troppo importante per mandarlo in rovina per una sfuriata di gelosia. "A volte il silenzio è d'oro" dice la sceneggiatura, riferendosi a un'attrice muta ingaggiata da Yusuke, e sembra davvero un aforisma sulla visione della propria relazione da parte del protagonista, che più avanti però appare incerto a riguardo e che, mentre sente l'enorme mancanza della donna amata, vorrebbe averla davanti per dichiararle ciò che prova ancora e ciò che sapeva di lei. Eppure anche il rapporto di Yusuke con Cechov la dice lunga sulla sua necessità di interiorizzare: Cechov tira fuori il vero di ognuno di noi, sostiene, e per questo almeno finché gli sarà possibile eviterà di interpretare il personaggio di zio Vanja, dando invece la parte proprio a Koji che, sorpreso per la scelta, si vedrà rispondere non a caso "Oto l'ha reso possibile".
In una sorta di gioco di scatole cinesi, la sceneggiatura (e il racconto di Murakami prima di essa) si fa metasceneggiatura, mostrandoci Oto che, dopo il sesso, racconta storie d'amore complesse, che il marito mette nero su bianco: è così che la donna è diventata un'affermata sceneggiatrice. Il film stesso inizia con delle bellissime immagini di Oto che fa l'amore, con lo spettatore di fatto, dato che il suo partner non si vede fino alla fine di questo straordinario incipit in cui la donna è una silhouette scura che si staglia sulla luce serale proveniente da una finestra a scomparti che dà sul paesaggio della città di Narita. La storia che ascoltiamo nel corso del film narra di una ragazza che si intrufola nell'appartamento del fidanzato quando non c'è: ogni volta ruba un oggetto e ne lascia uno suo, oltre a lasciarsi andare a pensieri di sesso e a masturbarsi mentre è lì. Come non pensare che qualcosa di molto simile, anche se a parti inverse, accadeva nel bel film di Lee Chang-dong Burning - L'amore brucia (2018), anch'esso tratto da Murakami?
Ed è proprio il giovane Koji che, in un dialogo con Yusuke, di cui è profondamente geloso perché a differenza sua ha potuto vivere Oto nella quotidianità, rivela il finale della storia narrata dalla donna dopo il sesso...
"Leggere nel cuore di chi si ama può significare tanta sofferenza...". 
Film duro, introspettivo, capace di metterci davanti alle nostre più profonde debolezze comunicative, Drive my car, rientrato nella cinquina dei candidati per il prossimo Oscar al miglior film straniero, sconquassa dentro e siate certi che, una volta visto, vi ci vorrà un po' prima di placare quell'agitazione epidermica che inevitabilmente avvertirete.

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