martedì 24 novembre 2020

Fantasmi a Roma (Pietrangeli 1961)

Da un soggetto di Ennio Flaiano, Ruggero Maccari, Antonio Pietrangeli, Ettore Scola e Sergio Amidei, e  da una sceneggiatura che coinvolse gli stessi nomi tranne l'ultimo, non ci si può aspettare altro che un capolavoro.
Eppure Fantasmi a Roma, prodotto da Franco Cristaldi, non può essere di certo considerato un tipico prodotto della commedia all'italiana: si tratta, infatti, di un film teatrale, quasi completamente ambientato in interni; in costume, dato che i personaggi appartengono a diverse epoche storiche; non aderente alla realtà, poiché i suoi protagonisti sono di fatto degli ectoplasmi, e privo di caratterizzazione borghese.  
Della commedia all'italiana, però, restano la critica sociale, soprattutto del boom economico, pronto a seppellire tutto in nome del guadagno e degli affari, non scevri dalla corruzione, e gli interpreti, su tutti Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman, due dei "mostri" della commedia all'italiana (guarda il film).
Don Annibale di Roviano (Eduardo De Filippo) è un nobile decaduto, che però non perde il suo stile e i suoi princìpi morali. Si rifiuta di vendere il palazzetto in cui abita, che affaccia sulla chiesa di Santa Maria della Pace (è palazzo Gambirasi, in via della Pace 8, costruito da Giovanni Antonio de' Rossi nel 1659 e oggi di proprietà degli Istituti Teutonici di Santa Maria dell'Anima), nonostante i problemi economici, e sintetizza la sua scelta in maniera inoppugnabile: "da squattrinato vivo in un palazzo, da milionario dovrei vivere in una casa piccola?"
L'apertura del film su don Annibale
Strenua la sua difesa di tutto ciò che è vecchio, in ossequio 
a un tema particolarmente caro a Eduardo drammaturgo, che in molte sue commedie ha messo in scena il contrasto fra tradizione e modernità, affidando ai suoi personaggi riflessioni amare sulla superficialità del mondo moderno. Conserva i cimeli di famiglia, compreso un antico trono che i suoi antenati tenevano per le visite del pontefice; litiga con Augusto lo stagnaro, perché i suoi garzoni non riescono a riparare uno scaldabagno che ormai cade a pezzi, e così via. È lui che dice a Nella (Franca Marzi), la ristoratrice della trattoria sotto casa in cui mangia sempre, "quando una cosa è vecchia bisogna lasciarla com'è, perché se uno cerca di modernizzarsi rischia di non piacere più".
Delineato il profilo di questo personaggio, si comprende bene anche la sua convinzione nell'esistenza dei fantasmi dei quali, essendo l'ultimo depositario delle storie della famiglia di Roviano che per secoli ha abitato il palazzo, conosce i singoli nomi e che tratta come coinquilini immaginari.
Ponte Cestio con San Bartolomeo all'Isola sul retro
Ovviamente, però, quei fantasmi fanno davvero parte della vicenda e sono protagonisti della pellicola come lui: c'è Poldino (Claudio Catania), fratello maggiore di Annibale, morto da bambino (e così lo vediamo); c'è fra Bartolomeo (Tino Buazzelli), religioso seicentesco ucciso dalla sua stessa gola, per aver mangiato delle polpette con veleno per topi; c'è donna Flora (Sandra Milo), svampita dama di inizio Ottocento morta suicida nel Tevere per una delusione amorosa (ogni sera si butta da ponte Cestio, in una scena ben riconoscibile per la chiesa di San Bartolomeo all'Isola sullo sfondo). A lei, "pare che fosse un po' cretina" dice Annibale, spettano battute trasognate o di donna ferita, quali "l'amore è come la storia: pochi eroi e un milione di vigliacchi". Nel Settecento, infine, ha vissuto Reginaldo di Roviano (Marcello Mastroianni), bisnonno di Annibale e incallito dongiovanni, caduto sul campo di battaglia, saltando dal balcone di un'amante per sfuggire al marito geloso ("ma ne valeva la pena", sentenzia malinconicamente quando glielo ricordano).
La semplice trama ruota attorno alle mire degli speculatori che vogliono acquistare il palazzo per poi farne un grande supermercato, un'idea assurda data la posizione dell'immobile, che però, nella finzione del film, non solo diventa plausibile, ma persino a un passo dall'esecuzione, con tanto di plastico del progetto, che supera tutti gli ostacoli grazie a ingenti mazzette offerte ai funzionari pubblici di turno. Bello e iconico l'espediente che Pietrangeli e i suoi collaboratori trovano per raccontare velocemente tutto l'iter burocratico, attraverso il montaggio reiterato della presentazione del progetto, in cui non vediamo nessun volto, ma solo le mani che mettono le mani sui soldi che appaiono improvvisamente all'interno di un garage di fianco al supermercato, alla cui apertura i dinieghi più convinti si trasformano in pronti timbri di approvazione (vedi).
Dopo la morte di Annibale, tutto diventerà più rapido, grazie al nipote, Federico di Roviano (ancora Mastroianni), affascinato dai facili guadagni e instradato sulla via della vendita dalla compagna Eileen (Belinda Lee), una Santippe arrivista odiata da tutti i fantasmi di famiglia, convinta per giunta che "quando una cosa è vecchia si butta via".
Per evitare il peggio, che naturalmente costringerebbe alla fuga tutti gli abitanti "trapassati" del palazzo, fra Bartolomeo e Reginaldo di Roviano coinvolgeranno un ulteriore fantasma, il pittore Giovan Battista Villari, detto il Caparra (Vittorio Gassman), nome che gli autori del soggetto dovettero recuperare direttamente dalle Vite di Vasari, dove così viene ricordato un artigiano del ferro vissuto nella Firenze tardoquattrocentesca di Lorenzo il Magnifico, che si guadagnò tale soprannome per l'abitudine di chiedere un anticipo sul pagamento dei suoi lavori.
L'entrata in scena del personaggio di Gassman dà al film un'impennata sensazionale e da quel momento in poi il Caparra si prende completamente la scena. Lo spettatore pende dalle sue labbra, cui la sceneggiatura riserva le linee migliori, nonché un approfondimento storico e storico-artistico che dà la misura della cultura che un tempo era alla base persino di una commedia tutto sommato disimpegnata come questa, certamente lontana dai film intellettuali dell'epoca.
Il Caparra, infatti, permette a Pietrangeli e agli altri sceneggiatori di raccontare la storia urbanistica di Roma in poche battute (vedi). Il pittore vive in una casetta vicino a Don Bosco, la cui mole si vede in lontananza tra i palazzi in costruzione, che Reginaldo non esita a definire "un mare di cemento", ennesima critica al nuovo che avanza (la torre merlata è quella del Quadraro, ancora esistente in piazza dei Consoli). L'abitazione è l'ultima residenza del Caparra, dopo diversi "sfratti" succedutisi nei secoli: da Montecavallo lo sfrattò "quel marchigiano" di Sisto V Peretti (1585-90); quindi fu la volta del governatore di Bonaparte, evidentemente a inizio '800; poi i piemontesi lo cacciarono da Porta Pia, post annessione di Roma al Regno d'Italia (1870); e, infine, da Borgo dovette sloggiare per colpa di Mussolini, che abbatté la famosa spina per creare via della Conciliazione nel 1936 (vedi).
Il ricorso al Caparra serve a salvare il palazzetto di via della Pace, sarà lui, infatti, a improvvisare un grande affresco di soggetto mitologico su un soffitto coperto da altre strutture per rendere degno di vincolo l'edificio e scongiurare la sua distruzione. Pertanto, non solo i fantasmi sfruttano le leggi sulla tutela per i loro interessi, ma l'arrivo dei giornalisti e del critico di turno per giudicare l'affresco è un altro capolavoro di scrittura.
Lo storico dell'arte Randoni (Mario Maresca), evidentemente esemplato su Roberto Longhi, nume tutelare della disciplina al tempo, nonché maestro più volte citato da Pier Paolo Pasolini, giudica quell'opera troppo pregiata per il pennello di Villari, che esplode tutta la sua rabbia contro di lui ("ma che dice quella checca?", "io lo strozzo", "figlio di una madre ignota"), e la attribuisce a Caravaggio (riabilitato proprio da Longhi all'inizio degli anni '50), cui toccano altri strali del Caparra. Quest'ultimo, peraltro, sottolinea come il pittore lombardo non abbia mai lavorato a fresco, con un'altra notazione storicamente esatta, dato che l'unico dipinto su muro di Michelangelo Merisi, il soffitto del casino Ludovisi, è a olio. Anche Randoni, però, non è esente dalla corruzione e quell'attribuzione, che ovviamente fa il gioco dei fantasmi di Roviano, è "oliata" da un'altra copiosa mazzetta.
Anche il soggetto dell'affresco è una parodia di iconografie tipiche degli amori del padre degli dei,
Giove trasformato in lavandaia che seduce Venere, nei cui panni si celano gli stessi fra' Bartolomeo e Flora, a cui il temperamento sanguigno di Giovan Battista Villari riserva battutacce come "guarda che se c'è una che si deve lamentare quella è Venere" o "le donne sono troppo cretine per essere antipatiche". E quando Reginaldo si sofferma con le dita su una spinetta e con aria romantica e nostalgica per le sue conquiste dice "oggi nei locali notturni si spogliano così, a suon di musica" (e Mastroianni proprio l'anno prima aveva girato La dolce vita), Caparra prorompe facendogli da contrappunto, "io le spogliavo a suon di sberle". E, in effetti, uno schiaffo lo darà anche a Flora...
Le sue imprecazioni contro tutti, anche contro i colleghi, non solo Caravaggio, ma anche Guido Reni, che definisce "quel sagrestano di Guido Reni" (riferimento agli sguardi estatici e rivolti al cielo di molte sue figure), gli valgono i tuoni di Dio, un espediente sonoro che lo rende molto più simile allo Zeus greco e allo stesso Giove romano. Quei tuoni si sentono anche quando fra' Bartolomeo nutre simpatie per Nikita Kruscev, un'ironia anticlericale che torna nella sequenza in cui Reginaldo segue un'avvenente suora e le sorelle passeggiano per il chiostro leggendo il manuale per la patente e non il più consono breviario (il convento è quello dei Piceni di San Salvatore in Lauro).
Caparra, poi, si lascia andare a uno sproloquio in cui non perde occasione per dare del trombone e del cornuto al Cavalier d'Arpino, suo maestro, dopo aver sciorinato un monologo sulla tecnica a fresco, per sottolineare la distanza tra la teoria e la pratica: "lo muro dello affresco ha da essere asciuttissimo, levigatissimo et senza asperitate alcuna, onde essere ugualmente ricoperto dall'intonaco di calce, preferibilmente grassa, sulla quale lo pittore stenderà poscia lo suo affresco [...] a parole siamo tutti bravi, vero cavaliere? Ma quando lo pittore deve stendere lo affresco su un muro che sembra fatto a forza di pallate di gesso e non ha intonaco di calce né grassa né magra, allora è un altro paio di brache".
La comicità di molte sequenze è comunque stemperata dal tono di fondo, ma anche dalla musica di Nino Rota, eseguita da Armando Trovajoli. Una curiosità: il
tema portante composto per la pellicola di Pietrangeli verrà riutilizzato per Film d'amore e d'anarchia (Wertmüller 1973), diventando la Canzone arrabbiata cantata da Anna Melato.
Fantasmi a Roma è un film imperdibile, in cui tutto funziona, sceneggiatura, interpreti, regia, musica, fotografia (Giuseppe Rotunno) e scenografia (Mario Chiari, Vincenzo Del Prato). Dopo averlo visto, passare davanti al portone di palazzo Gambirasi non sarà più la stessa cosa e ogni volta penserete che da lì possano uscire Eduardo De Filippo, Mastroianni o Gassman!

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