sabato 14 novembre 2020

Le notti di Cabiria (Fellini 1957)

Per questa pellicola, Oscar come miglior film straniero nel 1958, Giulietta Masina, premiata come migliore attrice a Cannes 1957, tornò ad interpretare la prostituta romana Cabiria, cinque anni dopo averlo fatto, per un cameo, ne Lo sceicco bianco (Fellini 1952). Il personaggio, peraltro già abbozzato per uno dei mediometraggi de L'amore di Rossellini (1948), poi sostituito da Il miracolo, venne trasformato in quello di protagonista nella pellicola che Fellini, che Giulietta Masina aveva sposato il 31 ottobre 1943, le ritagliò addosso creando un'opera di assoluta sensibilità, anche grazie alla collaborazione, in fase di scrittura, di Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Pier Paolo Pasolini, come consulente per il romanesco.
Pasoliniano è anche il contesto sottoproletario cui appartengono Cabiria, soprannome di Maria Ceccarelli, e le sue amiche, prostitute corpulente e sempre sorridenti, in piena tradizione felliniana. Tra queste, ruba la scena Wanda, che con cinismo è vicina a Cabiria sin dalla prima sventura subita. Non dà alcuna speranza alla bontà e, quando l'amica urla per l'assurdità dell'ingiustizia patita, "ma come, pe' quarantamila lire uno te butta al fiume, te fa morì affogata pe' quarantamila lire?", lei risponde "pure pe' cinquemila ar giorno d'oggi".
La questione sociale è un tema portante dell'intera storia e la voglia di emanciparsi da quella realtà è alla base della spinta quotidiana di Cabiria che, non a caso, tiene a sottolineare che la casetta di mattoni alla buona in cui vive è di sua proprietà.
La piccola abitazione si trova in una zona alla periferia meridionale della città, ad Acilia, piccolo centro a metà strada tra Roma e Ostia, allora poco più di una landa desolata da far invidia ai paesaggi western statunitensi e in cui si aggira uno strampalato frate francescano che dà consigli esistenziali alla protagonista e che è un'altra meravigliosa chicca della sceneggiatura.
Roma è protagonista: delle periferie, tanto care a Pasolini, vediamo anche la Magliana, dove inizia il film, mostrando una città in costruzione, figlia del boom economico post Seconda guerra mondiale (Cabiria cita anche la metropolitana), il Divino Amore sull'Ardeatina, Pietralata sulla Tiburtina, ma anche, all'opposto della scala sociale, l'Appia Antica delle ville, mentre del centro storico appaiono la zona di Caracalla dove, alla Passeggiata Archeologica, Cabiria e le altre "fanno la vita", nonché via Veneto e i suoi dintorni. 
Quella che diventerà la zona di Fellini per eccellenza con La dolce vita (1960), ne Le notti di Cabiria è quella in cui la protagonista incontra l'attore Alberto Lazzari, nome che allude chiaramente al suo interprete, Amedeo Nazzari, che a sua volta in un dialogo cita un collega, Vittorio Sgama, che rimanda a Gassman.
Nel personaggio del divo c'è tutta la critica felliniana al mondo del cinema: è un uomo pieno di sé che, dopo una litigata con la fidanzata attrice, Jessy (Dorian Gray), cura la propria tristezza abbordando Cabiria, che non crede ai suoi occhi, arrivando a chiedere a Lazzari una foto autografata, soprattutto per dimostrare alle sue amiche dove ha passato la notte ("lei è bello come la sua casa"). 
E poco importa se l'arrivo della fidanzata di Lazzari la costringerà a rimanere chiusa in bagno fino al mattino seguente, guardando da lì, dal buco della serratura, la riappacificazione della coppia turbolenta.
Fellini e lo scenografo Piero Gherardi non lesinano nella caratterizzazione dettagliata della villa, che si attaglia perfettamente al personaggio vanaglorioso e fatuo interpretato da Amedeo Nazzari: colonne tortili in camera da letto, busti, dipinti, statuette cinesi e un eloquente telefono bianco sul comodino, che rimanda alle commedie italiane anni '30-'40 che presero appunto il nome di "cinema dei telefoni bianchi".
Quello vissuto con Lazzari è solo uno dei tanti episodi in cui Cabiria viene giocata dalla vita. Il film, infatti, si apre e si chiude con degli inganni ancora più gravi, in cui la donna viene ferita sentimentalmente, nella sua inscalfibile fiducia nel prossimo che, però, non viene meno neanche dopo i torti subiti. Nel primo caso, della storia con Giorgio che la getta nel fiume per sottrarle la borsa, non sappiamo nulla, anche se il personaggio è interpretato da Franco Fabrizi, ma lo scopriamo solo dopo, in una foto che l'innamorata Cabiria tiene in casa. È il suo ruolo di sempre e chissà, forse non è un caso che Cabiria mentre continua ad alimentare il falò delle sue cose, lo definisca "sto vitellone zozzo"! (Ne I Vitelloni - Fellini 1953, Fabrizi era Fausto, marito infedele e mai cresciuto della imbelle Sandra).
Nel secondo, con Oscar (un bravissimo François Périer), seguiamo l'intero percorso dell'innamoramento e, come Cabiria, veniamo ingannati anche come spettatori dall'evoluzione dei comportamenti del suo pretendente. All'inizio di questo percorso, quando Oscar si presenta come un timido ragioniere pugliese vittima della solitudine, è davvero divertente, quanto fedele a certe dinamiche tutte romane, ancora oggi frequenti: Oscar, infatti, invita Cabiria a prendere un amaro al bar, ma il gestore del bar, a ridosso della chiusura, prima gli dice "sbrigateve, ché devo chiude" e poi gli toglie i bicchieri appena hanno finito di bere, per velocizzare le manovre.
Cabiria a Piazza San Giovanni Bosco in costruzione
E sarà proprio con Oscar che Cabiria girerà per altre zone della città, come Termini, Porta Maggiore, l'Aventino e Don Bosco sulla Tuscolana, fino al lago di Castel Gandolfo, che arricchiscono la serie di luoghi della capitale immortalati dal regista riminese in questo film.
Fellini gioca con le ombre e soprattutto con quella proiettata sulle rovine di Caracalla da un travestito che si prostituisce insieme a Cabiria e le altre. La sequenza è al tempo stesso da amante del cinema e della storia della rappresentazione in movimento (nei musei a tema cinematografico il teatro d'ombre è sempre inserito tra gli esempi più antichi che anticiparono la settima arte), ma ribadisce anche il tema del riscatto sociale, con il travestito che mentre elogia la propria classe ("sono una gran dama"), è convinto che "non mi vedrete mai più in questo posto, è l'ultima sera", e, puntuale, arriva la reprimenda di una collega, "me sembri Moby Dyck me sembri [...] lo sai dove devi anda'? Ar circo equestre".
Il gioco d'ombre si ripete quando Lazzari, dopo aver "liberato" Cabiria dal bagno al mattino, la paga per il disturbo, ma vediamo la scena da dietro un vetro, in cui appaiono le sole silhouette dei due.
Altri riferimenti cinefili giungono quando Cabiria, nome cinefilo esso stesso (Lazzari la guarda sorridendo quando lo sente, pensando evidentemente al capolavoro di Pastrone del 1914), entra nel Lux per vedere uno spettacolo teatrale, puro avanspettacolo dell'epoca. Qui, nel grande salone dov'è la biglietteria, si riconoscono una serie di manifesti delle pellicole proiettate in quel cinema tempo prima: Processo alla città (Zampa 1952), proprio con Amedeo Nazzari; Sangue e metallo giallo (Hibbs 1954), Torna piccina mia! (Campogalliani 1955), Totò lascia e raddoppia (Mastrocinque 1956). Quel cinema, un tempo a via di Pietralata, oggi non esiste più e al suo posto c'è l'omonima fermata della metropolitana (vedi).
Lo spettacolo cui assiste Cabiria è quello di un mago (Aldo Silvani) che la costringerà a partecipare ipnotizzandola. L'immancabile motivo del magico felliniano, però, è forse più ancora più vivido nella sequenza ambientata al Divino Amore, dove si fonde col sacro, con la mdp che ci rimanda un'atmosfera ai limiti dell'esoterico, tra candele, ex voto e altri dettagli su cui indugia. Cabiria va lì insieme a un piccolo gruppo di persone per chiedere la grazia alla Madonna per lo zio "zoppo" del suo protettore, Amleto (Ennio Girolami, ma doppiato da Nino Manfredi). Anche lei, in cuor suo, vuole chiedere la grazia di cambiare vita e l'iniziale entusiasmo è pari alla delusione all'uscita, quando si accorge che in realtà non è successo nulla: "nun semo cambiate [...] semo rimaste tutte come prima" urla con vera disperazione a Wanda che, come sempre, invece, non è affatto meravigliata "a Cabì, ma che vòi cambia'?". 
La sprovveduta e ingenua fiducia di Cabiria è, verso la religione, la stessa nutrita nei confronti degli uomini. Fellini, con un finale di speranza dopo il dramma, che vede la protagonista passeggiare tra i ragazzi che suonano, ballano e cantano, tornando a sorridere dopo le lacrime, è con lei, e anche lo spettatore non può non empatizzare con questa maschera del cinema italiano. E sono tanti i modelli del personaggio di Cabiria, che discende dai giornali illustrati, ben noti al Fellini illustratore, come la Isolina Marzabotto di Mario Pompei o il signor Bonaventura di Sto; e, inoltre, è un po' Gelsomina (il personaggio della Masina ne La strada - Fellini 1954) e un po' Charlot, con una lacrima ben segnata in scuro, nel finale, che la rende anche un po' Pierrot, senza dimenticare che all'inizio del film viene messa a testa in giù dopo l'annegamento e scossa come fosse un burattino, una sorta di Pinocchio al femminile.
Chi è capace di sognare, nonostante le durezze della vita, accettando quest'ultima per come è, ha la piena simpatia del regista riminese. E Cabiria, in tal senso, è un personaggio pienamente felliniano...

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