domenica 8 novembre 2020

In the mood for love (Kar-wai 2000)

A vent'anni dalla sua uscita, In the mood for love va indubbiamente annoverato tra i capolavori di questa prima parte del secolo e, forse, a tutt'oggi la migliore pellicola di Wong Kar-wai, sicuramente, per chi scrive, il più bel film sentimentale di questi due decenni e non solo.
Il titolo inglese, tratto dall'omonima canzone di Bryan Ferry del 1999 (ascolta), che al regista sembrò perfetto per l'atmosfera del film, spiega in qualche modo quello maggiormente metaforico originale, in cantonese, Faa yeung nin wa, cioè "l'età della fioritura", decisamente più poetico, ma che in effetti può essere messo in relazione con la stessa disposizione all'amore. La canzone, non inserita nella bellissima colonna sonora, venne usata per il trailer.
In the mood for love è una pellicola magnifica, esteticamente impeccabile, perfetta in tutti i suoi aspetti, nella regia, nella scenografia, nei costumi, nella musica, nel montaggio, nell'ambientazione storica, nell'interpretazione dei due splendidi attori, che racconta un amore impossibile, fallimentare e vittima delle convenzioni sociali, nato dalla solitudine di un uomo e una donna, lasciati soli dai rispettivi coniugi, che appaiono costantemente indaffarati nel proprio lavoro. Saranno poi due dettagli rivelatori, una cravatta e una borsa, a cambiare la storia, in realtà già intimamente nota ai protagonisti, che vedono così confermate le loro amare intuizioni. 
E pensare che la storia narrata, nelle intenzioni iniziali, doveva essere parte di un film di tre episodi e riprodurre il contesto storico in cui il regista aveva vissuto da bambino, all'interno della comunità di Shangai trasferitasi ad Hong Kong dopo l'avvento del comunismo (1949). Questa vicenda, poi, prevalse sulle altre, ma qualcosa della sua iniziale impostazione è rimasta, come ad esempio la possibilità di percepire il tempo dell'anno in base ai cibi che mangiano i personaggi, un dettaglio purtroppo pressoché incomprensibile per noi occidentali.
Hong Kong, 1962. La signora Chan (Maggie Cheung), segretaria di una compagnia di navigazione, e il signor Chow (Tony Leung), caporedattore in un giornale, vivono in due stanze in altrettanti appartamenti sullo stesso pianerottolo, che hanno preso in affitto quasi in contemporanea. La casualità del loro incontro, verrebbe da dire, è così ostinata da presupporre un destino indomito che li fa mancare di un attimo quando cercano la stessa stanza nella pensione della signora Suen, ma che li rimette uno accanto all'altra subito dopo, fino a farli incontrare sempre più spesso e decidere di unire le loro solitudini. È un gioco di sguardi sin dall'inizio, quando Chow nota l'affascinante vicina, in un discreto colpo di fulmine, che si farà via via più evidente, così come la signora Chan, all'ennesimo incontro, non riuscirà a non voltarsi, seppur impercettibilmente, per guardare l'elegante Chow che scende le scale che lei sta salendo. Da quel momento in poi i due si guarderanno sempre più attentamente e inizieranno a dialogare e a frequentarsi nella loro platonica amicizia. Va detto, però, che questa è stata una scelta successiva del regista che, in fase di montaggio, ha cancellato le sequenze in cui i due protagonisti cedevano al desiderio, così come quelle in cui venivano mostrati i volti dei loro coniugi.
Il marito di Chan è un imprenditore sempre in viaggio, soprattutto in Giappone, e ne vediamo la sagoma, rigorosamente di spalle, seduto al tavolo mentre gioca a Mah Jong in casa con gli altri inquilini; la moglie di Chow, invece, lavora in un albergo: proprio qui, seduta alla reception, la vediamo di spalle mentre è a telefono col marito. Per il resto i due non si vedono mai, ma si percepisce la loro presenza in alcuni dialoghi in cui i protagonisti parlano con il proprio coniuge o con quello dell'altro: in entrambi i casi la mdp non si sposta mai dai due attori, evitando il controcampo che ci si aspetterebbe e lasciando le repliche alle sole voci fuoricampo dei loro interlocutori.
Wong Kar-wai aveva già girato due bellissimi film d'amore, come Days of Being Wild (1991), anch'esso ambientato negli anni '60 e con Maggie Cheung, e Hong Kong Express (1994), con Tony Leung, suo attore feticcio. Stavolta i due interpreti, per il regista i due migliori attori cinesi della loro generazione, diventano protagonisti assoluti e, lavorando senza copione, senza conoscere la storia, ma solo ricevendo alcune indicazioni preliminari sui personaggi, vivono un melodramma dal tono epico e splendidamente estetizzante, con un'interpretazione così puntuale e curata, per loro stessa ammissione, favorita dalle lunghe riprese, durate quindici mesi, che gli permisero di entrare completamente nelle rispettive parti.
Chow e Chang sono due persone estremamente infelici: ferito ma pronto per una nuova storia il primo, silenziosa e incapace di tirar fuori i propri sentimenti la seconda, in ossequio agli schemi sociali della Cina di quegli anni. Perfetta la sintesi che Maggie Cheung ha fatto del suo personaggio in un'intervista risalente ai tempi dell'uscita del film: "prova ad essere una persona per bene, ed è per questo che è infelice. Cercare di essere buoni rende infelici. Vuole essere una buona moglie, fare carriera, realizzarsi, ma in un certo modo, tutta questa pressione le impedisce di trovare la vera felicità". 
In una storia così intensa, l'unico tocco d'ironia è nel personaggio di Ping (Ping Lam Siu), il buffo collega del signor Chow, che beve, frequenta bordelli e non lesina giudizi camerateschi sulla travolgente bellezza della signora Chan, e che, quando vede Chow nella sua fase più introspettiva e disperata, prova ad alleggerirlo a suo modo: "Io invece cercherei una donna per sfogarmi", sentendosi rispondere "non siamo tutti uguali".
I due inizieranno ad uscire insieme per ingannare la solitudine, ma la loro amicizia sarà vista con sospetto in un condominio di benpensanti, in anni in cui ad Hong Kong il conformismo è l'atteggiamento dominante. Le loro serate, i loro avvicinamenti e persino i loro scontri sono pura messa in scena metainterpretativa. Più di una volta il regista gioca su questo fattore girando intere sequenze che lasciano credere allo spettatore che i due si stiano avvicinando veramente, per poi disilluderlo rivelando solo alla fine che Chan e Chow stanno provando ad interpretare gli incontri dei loro coniugi, per capire come questi abbiano potuto iniziare la loro relazione. 
In un eccesso di emulazione, in un ristorante arrivano persino a ordinare i piatti preferiti dei consorti, mentre Chow ottiene addirittura uno schiaffo quando la signora Chan gli chiede, come se fosse suo marito, se abbia un'altra donna. Quel sì nemmeno sofferto causa la reazione della donna, consapevole che non provare nemmeno a negarlo sarebbe sintomo di un amore davvero finito.
La ricerca della comprensione porterà anche i due protagonisti a fare i conti con l'innamoramento: "non credevo che ti innamorassi di me" dice la signora Chan a Chow, che risponde "nemmeno io lo credevo... certe cose succedono così... credevo di avere tutto sotto controllo". Eppure anche alla signora Chan scenderà una lacrima nel chiuso della sua stanza.
Difficile trovare un dettaglio poco significante o un'inquadratura sbagliata in In the mood for love: campi vuoti alla Ozu, in cui la mdp indugia; suggestivi surcadrage (si pensi soprattutto all'ovale della boiserie che dà sulla reception dell'albergo in cui lavora la moglie di Chow); frequenti ralenti, in cui lo sguardo dello spettatore può perdersi, anche in una semplice nuvola di fumo; molti carrelli che pian piano svelano la scena, talvolta usati persino in rapido alternarsi per movimentare il dialogo dei due attori principali e, in un caso, per passare da un lato all'altro della parete che separa le stanze in cui vivono i due protagonisti, seduti idealmente schiena contro schiena. 
La doppia natura morta
Wong Kar-wai cura la messa in scena in maniera magistrale, con dichiarati omaggi a Robert Bresson e a Michelangelo Antonioni, e in essa talvolta si susseguono evidenti consonanze figurali. Alcuni casi possono essere presi ad esempio. Nella parte iniziale, uno dei tanti campi vuoti del film, dopo l'uscita dall'inquadratura di Maggie Cheung, mostra alla parete un dipinto con una natura morta, che si ripete sulla tavola al centro della stanza, dove campeggia un analogo piatto di frutta. La stessa cosa accade più avanti, quando la signora Chan indossa un vestito su cui sono stampati degli iris gialli, i medesimi fiori posti in un vado sul tavolo in primo piano. 
Gli iris gialli sul vestito e nel vaso
E come non citare, inoltre, la sequenza in cui Chan raggiunge Chow in una stanza d'albergo dove sta scrivendo un romanzo? La donna, per arrivare alla porta, deve percorrere un lungo corridoio che su un fianco è completamente occupato da un tendaggio rosso, lynchiano, un dettaglio funzionalmente inutile e davvero improbabile, ma simbolicamente ed esteticamente magnifico, con cui fa il paio il soprabito rosso di Maggie Cheung. 
E ancora, Wong Kar-wai riprende per diverse volte la porta d'ingresso dell'appartamento della signora Suen dall'interno, mettendo la mdp dietro una cancellata che la rende scompartita come fosse un dipinto di Mondrian.
Parlando ancora di dettagli, la stanza in cui i due si incontrano lontano da sguardi indiscreti è la 2046, che sarà il titolo del successivo film del regista di Shangai (2004), sequel di In the mood for love, girato praticamente in contemporanea e con diverse location che si ripetono, a causa della crisi finanziaria asiatica del 1999. "È stato molto doloroso, come amare due persone allo stesso tempo", ricorda il regista, convinto di aver girato un film difficile, ma forse il più importante della sua carriera.
È sempre Chow che cerca il contatto con la signora Chan, le loro mani si sfiorano, ma la donna si allontana più volte. Una sola certezza alberga nella sua mente: "non dobbiamo essere come loro", cosicché di fronte alla ricerca di complicità rispetto al romanzo scritto insieme da parte di Chow, lei risponde freddamente "il romanzo l'hai scritto da solo, non hai bisogno di me", mentendo spudoratamente pur di non cedere. Il dovere è un valore troppo alto per quella società conservatrice, soprattutto per una donna. E a Chow e Chan non resterà che tornare in quei luoghi anni dopo, ricordando malinconicamente il passato che non è stato, senza incontrarsi pur essendo sullo stesso pianerottolo, proprio come era accaduto la prima volta.
Il lavoro fatto sui vestiti di Maggie Cheung merita un discorso specifico. Innanzitutto va precisato che William Chang ha un ruolo basilare tra i collaboratori del regista e qui, come in altri casi, è responsabile non solo dei costumi, ma anche della scenografia e del montaggio del film.
La cancellata alla Mondrian di casa Suen
Tanti i tessuti che riempiono la scena, dai tendaggi ai paralumi, ma i vestiti indossati dalla signora Chan sono addirittura 21 (a cui si aggiunge come ventiduesima mise quella con il soprabito già citato - vedi il montaggio di dettagli in fondo a questa recensione). Sono tutti cheongsam, il modello di abito cinese che ebbe origine all'inizio del XX secolo, caratterizzato da un taglio aderente, chiusura laterale e da un collo alto. Questi vestiti, indosso ad un'attrice che risulta sensuale anche semplicemente girando un tè con il cucchiaino, non fanno che accrescere ulteriormente il fascino di Maggie Cheung e, come visto, hanno spesso un ruolo all'interno della scena, mentre i loro motivi decorativi, spesso a tema floreale, si accoppiano perfettamente con l'età della fioritura del titolo originale. 
In un frangente, inoltre, proprio il cambio di abito della donna, all'interno della stessa sequenza, permette di capire che in realtà quello che stiamo vedendo è il reiterarsi dei loro incontri: i costumi, di fatto, intervengono sul tempo dell'azione. Va detto, infine, che anche la signora Suen, titolare della pensione in cui si svolge gran parte dell'azione, indossa diversi abiti della stessa tipologia.
L'altra grande protagonista di In the mood for love è la musica. La colonna sonora è un capolavoro nel capolavoro e ogni scena assume maggior valore grazie ai brani scelti. Impossibile non associare il valzer Yumeji's theme di Shigeru Umebayashi, forse il più identitario della pellicola, peraltro tratto da un precedente film giapponese (Yumeji, Suzuki 1991), all'immagine dell'elegante incedere di Maggie Cheung, e così la prima cena tra Chan e Chow non sarebbe la stessa senza la voce di Nat King Cole che canta la malinconica Aquellos ojos verdes. Spetta allo stesso cantante amplificare i toni del melodramma, con Te Quiero Dijiste e soprattutto con Quizas quizas quizas, altro brano che mette in scena la memoria del regista, che ricorda l'ampia diffusione della musica latina nella Hong Kong dell'epoca. 
Oltre ai diversi pezzi cinesi del tempo, che contestualizzano la storia (es. Shuang shuang yan), vanno infine ricordati gli struggenti brani composti per l'occasione da Michael Galasso, come Angkor Wat Theme Casanova III.
Il primo di questi due pezzi prende il titolo dell'unica sequenza ambientata alla luce del sole, in un film notturno e perlopiù girato al chiuso, nel quale pure gli esterni, fatta eccezione per il finale, si limitano ad angoli di strada bui e altrettanto claustrofobici. I due protagonisti, in una lunga sequenza, restano persino chiusi insieme in una stanza, costretti lì dalla presenza della padrona di casa, per non destare sospetti, pur avendo solamente parlato per tutta la sera. 
Invece, tornando all'ultima parte, la location è il sito archeologico di Angkor Wat: il pretesto per cui Chow vi giunge è la cronaca della visita di Charles De Gaulle in Cambogia (1966), ma è lì che sceglie di affidare a una cavità nel muro di un antico monastero ormai in rovina il segreto che neanche noi possiamo ascoltare, ma che immaginiamo, per poi sigillare il buco con la terra, un'antica tradizione che aveva anticipato a Ping. 
In un film in cui le immagini e la musica basterebbero a considerarlo un capolavoro, e nel quale, come affermato dallo stesso regista, gli attori dovevano principalmente comunicare attraverso i movimenti del corpo e gli sguardi, anche la sceneggiatura non è da meno e sono tanti i momenti in cui le riflessioni e i dialoghi rubano l'attenzione agli occhi in favore dell'udito. 
In uno scambio fondamentale, in cui i due mostrano tutta la delusione per i propri matrimoni, il signor Chow riflette a voce alta, "quando uno vive da solo può fare quello che vuole, ma una volta sposati si deve decidere in due, non ti pare? A volte mi domando come sarei adesso se non fossi sposato, a te capita mai di pensarci?", e la signora Chan risponde "forse sarei più felice. Non immaginavo che la vita a due fosse così complicata. Quando si è da soli non si deve rendere conto a nessuno, ma una volta che sei sposata, anche se fai del tuo meglio, non basta".
Le lacrime della signora Chan
La narrazione si apre e si chiude con due frasi che fanno da cornice alla storia e nelle quali si riassumono immagini che evocano la trama della pellicola. "Fu un faccia a faccia imbarazzante. Lei, sia pure con pudore, gli diede l'occasione di avvicinarsi ma a lui mancò il coraggio. E allora lei, voltandogli le spalle, se ne andò via"; e "ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato. Il passato è qualcosa che può vedere ma non può toccare. E tutto ciò che vede è sfocato, indistinto". Ed è così che spesso, Wong Kar-wai riprende le scene, con la mdp che sorprende i due protagonisti "guardandoli" attraverso cancellate, tessuti trasparenti, finestre, specchi, uno sguardo esterno che sembra spiarli costantemente.
La mdp è sovrana: può impedire allo spettatore di vedere i consorti di Chow e Chan, ma deve arrendersi di fronte alla confessione del proprio segreto nella cavità di un tempio millenario da parte di Chow... lì lo sguardo non è più sufficiente e anche a noi non resta che osservare e ammirare tutto in silenzio.




I 21 abiti cheongsam indossati da Maggie Cheung (in ordine di apparizione)
e il soprabito rosso indossato con il n.15


Nessun commento:

Posta un commento