L'affare Dreyfus è un caso esemplare per raccontare l'ingiustizia fatta storia e, inutili polemiche a parte, il film di Polanski è bello, didattico e necessario, anche perché ogni epoca e ogni latitudine, purtroppo, continuano a conoscere casi simili.
Di pellicole con queste caratteristiche, il maestro di Lodz ne ha girata almeno un'altra, Il pianista (2002): rispetto ad allora, stavolta si mostra più razionale, più freddo, e questo è inevitabile dato il coinvolgimento autobiografico per la tragedia dell'olocausto, ma anche in questo caso, come evidente autocitazione, mostra il suo protagonista suonare il piano mentre tutto sembra crollare intorno a lui.
Ammessa una certa imperturbabilità come unica parziale critica, il film è sostanzialmente perfetto, e per rigore fa pensare al Rossellini de La presa di potere di Luigi XIV (1966) e degli altri film tv storici anni '60-'70. Attori, scenografie, costumi, ambienti proiettano nella Parigi a cavallo tra XIX e XX secolo, che furono teatro dell'assurda vicenda (trailer).
Da lì in poi la narrazione seguirà soprattutto il tenente colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin), l'uomo che, nominato capo dei servizi segreti, si renderà conto che il capitano Alfred Dreyfus (un irriconoscibile e "puntuto" Louis Garrel) è stato accusato ingiustamente, anche per volontà antisemita, al posto di un altro membro dell'esercito, Ferdinand Esterhazy. Per anni dovrà combattere contro l'opposizione dell'esercito francese, che lo spingerà in tutti i modi a rinunciare alla sua crociata, tentando di insegnargli come una decisione presa, sebbene sbagliata, debba essere sostenuta per non correre il rischio di dover ammettere l'errore. Picquart non si fermerà e, pur condividendo sentimenti antisemiti, anteporrà a quelli l'onore e la caparbietà nella ricerca della verità, ostinandosi a rifiutare l'idea di aver donato venticinque anni della propria vita ad un esercito così corrotto e concentrato solo alla mera esecuzione degli ordini in maniera ottusamente gerarchica.
Polanski racconta con dovizia di particolari tutti i passaggi che permettono a Picquart di scoprire la verità e lo fa ricorrendo innumerevoli volte ai flashback.
Oltre le continue analessi agnitive, tra gli espedienti utilizzati dal regista si segnala un'ellissi che porta la scena da un mappamondo indicato da un generale all'Isola del Diavolo, nella Guyana francese, in cui viene confinato Dreyfus. La memoria cinefila va subito alla medesima soluzione visiva usata da Truffaut in apertura di Adele H. (1975) per condurre la mdp ad Halifax. Gli anni della Francia colonialista sono gli stessi, e del resto, i due film hanno anche una comune connessione a grandi nomi della letteratura francese: Victor Hugo per Adele H., appunto, Emile Zola, naturalmente, per L'ufficiale e la spia, che culmina nel suo J'accuse - titolo originale della pellicola, infelicemente modificato nell'edizione italiana - sul quotidiano L'Aurore, momento basilare per la rimozione del grande velo di omertà e silenzio. Bellissima l'intera sequenza: gli strilloni in strada gridano il titolo per vendere il giornale, Picquart è stato appena prelevato in casa per essere trasferito in prigione, ed è lui il primo che vediamo acquistare il giornale e iniziare a leggerlo; di lì in poi tutti i membri dell'esercito che hanno ostacolato la verità e che vengono citati da Zola fanno la stessa cosa.
Come non pensare all' "Io so" del 14 novembre 1974 di Pier Paolo Pasolini, e così, come non equiparare la costanza di Picquart a quella che recentemente ha caratterizzato la lotta di Ilaria Cucchi per riabilitare la memoria di suo fratello Stefano? È la conferma che ogni paese e ogni realtà può associare un caso ormai diventato storicamente simbolico con episodi di errori giudiziari più o meno recenti della propria storia.
Eppure Polanski riesce a stemperare la materia trattata con una sorprendente leggerezza che traspare in semplici gag, come la finestra difettosa nell'ufficio di di Picquart, o in battute sul metodo "a secco" e "a vapore" utilizzati dagli uomini impiegati dei servizi segreti per leggere la corrispondenza delle persone sospette; ma anche la risibile spiegazione del perito calligrafico Bertillion (Mathieu Amalric, sempre più "sosia" di Roman Polanski) che, di fronte all'evidenza mostratagli da Picquart, in un laboratorio in cui si occupa di frenologia e dove campeggiano le foto dei tipi di Cesare Lombroso, risponde che allora "gli ebrei hanno formato qualcuno a scrivere come Dreyfus".
La stessa dura e cinica ironia della sceneggiatura, che Polanski ha scritto insieme allo stesso Harris, si fa avverte subito, con la battuta di un astante che osserva la scena del cortile dell'Ecole militaire: "i romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli diamo gli ebrei. È il progresso". E così, Picquart, a cui il generale Boisdeffre (Didier Sandre) ripete di non volere un altro caso Dreyfus, risponde "non è un altro affare Dreyfus, è lo stesso!", mentre un altro generale, Gonse (Hervé Pierre), dandogli del sentimentalista. lo catechizza ricordandogli che "portare segreti nella tomba è l'essenza del nostro lavoro", sorridendo al cospetto di quella ostentata e a suo avviso ingenua irreprensibilità. Eppure Picquart continua ad avere un ideale molto differente da quello dei suoi colleghi, come precisa a chiare lettere al maggiore Henry (Grégory Gadebois), altro sostenitore dell'insabbiamento: "questo forse è il vostro esercito, non il mio". Proprio con Henry, peraltro, Picquart si ritroverà a combattere in un duello all'arma bianca, di quelli richiesti per "avere soddisfazione", testimonianza storica di quanto la pratica del cosiddetto "scontro tra gentiluomini", nonostante i tentativi di abolirlo sin dai tempi della Rivoluzione francese, continuasse a perdurare ancora a quella data.
C'è spazio anche per uno scambio di battute antiromantico tra Picquart e Pauline Monnier (Emmanuèlle Seigner) che, sentendosi chiedere in sposa da un uomo da sempre contrario al matrimonio, gli risponde "non sei un uomo che si sposa e mi hai fatto capire che anch'io sono così".
Anche la storia dell'arte non può mancare in un film come questo, che vi ricorre sia nella scenografia firmata da Jean Rabasse, che qua e là appende dipinti celebri come Bonaparte valica il Gran San Bernardo di Jacques Louis David (1801), sia nella regia, che trasforma alcune sequenze in veri e propri tableaux vivants. Tra queste si noti soprattutto il gruppo di amici di Piquart, tra cui compare anche Philippe Monnier (Luca Barbareschi), marito della sua amante, Pauline, che viene messo in scena come i protagonisti de Le dejeuner sur l'herbe di Édouard Manet (Musée d'Orsay, 1863), o la posa della stessa Pauline che, disperata per gli eventi, si lascia cadere su una sedia mentre beve, in maniera del tutto simile a L'absinthe di Edgar Degas (Musée d'Orsay, 1875-76).
Anche il Louvre ha una sua parte nella pellicola: nella Sala delle sculture del museo francese, infatti, si svolge un'importante sequenza della storia relativa al dossier Dreyfus e non a caso, davanti a statue romane che riproducono originali greci perduti, Picquart gioca sulla differenza sostanziale tra i falsi e le copie. Infine, pienamente pittorica nella sua essenzialità è anche la natura morta realizzata con i simboli gettati a terra dall'ufficiale incaricato di degradare il condannato Dreyfus nella prima scena, perfettamente esemplata sulle immagini prodotte al tempo.
Quella di Polanski, va ricordato, non si tratta certo della prima versione cinematografica incentrata sul celebre scandalo della Terza Repubblica francese, su cui per primo aveva concentrato la propria attenzione già Georges Méliès, con L'affare Dreyfus (1899), girato addirittura mentre i fatti stavano avvenendo. A questo era seguito, nel 1908, il cortometraggio dallo stesso titolo di Lucien Nonguet e Ferdinand Zecca prodotto dalla Pathé, mentre negli anni '30 l'argomento aveva varcato i confini francesi, arrivando in Germania e stimolando il lavoro dell'austriaco Richard Oswald (Dreyfus, 1930), e quindi negli Stati Uniti, dove un ampio capitolo di The Life of Emile Zola di William Dieterle (1937) è dedicato al caso Dreyfus.
Dopo la Seconda guerra mondiale, L'affare Dreyfus è stato diretto e interpretato dall'istrionico portoricano José Ferrer (1958), mentre, fatta eccezione per un documentario che ricostruisce i fatti (Dreyfus ou l'Intolérable Vérité, 1975), la storia tornerà sugli schermi solo negli anni novanta con Prigionieri dell'onore di Ken Russell (1991) con, ironia della sorte, Richard Dreyfuss nei panni del colonnello Picquart, e ancora L'affare Dreyfus (1995) diretto per la tv francese da Yves Boisset.
Il Gran Premio della Giuria a Venezia per il film di Polanski ha sancito il superamento del preconcetto di una voluta associazione del regista tra se stesso e Dreyfus, tanto più che guardando il film appare chiaro che Polanski non si identifica affatto con il condannato, volutamente rigido e antipatico in modo da non avere i caratteri dell'eroe, quanto piuttosto con Picquart, il vero protagonista della pellicola, non certo senza macchia, e che peraltro, nella finzione, accoppia con la propria compagna nella vita reale, Emmanuelle Seigner, presenza da anni immancabile nei film di Polanski.
Se proprio si sente la necessità di storcere il naso, forse appare più ragionevole notare che in cima alla lista dei produttori, ci sia il nome del magnate russo d'origine ebraica Roman Abramovic, dal passato non certo limpido, e anche l'italiano Luca Barbareschi. I dieci milioni di budget, però, erano necessari per un colossal in costume come questo.
Resta una sola certezza: si tratta dell'ennesima grande opera di uno dei cineasti più rilevanti degli ultimi cinquant'anni; un film la cui importanza non può essere taciuta o sminuita dalle polemiche che, per fortuna, col tempo svaniscono lasciando intatta la qualità della pellicola.
La stessa dura e cinica ironia della sceneggiatura, che Polanski ha scritto insieme allo stesso Harris, si fa avverte subito, con la battuta di un astante che osserva la scena del cortile dell'Ecole militaire: "i romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli diamo gli ebrei. È il progresso". E così, Picquart, a cui il generale Boisdeffre (Didier Sandre) ripete di non volere un altro caso Dreyfus, risponde "non è un altro affare Dreyfus, è lo stesso!", mentre un altro generale, Gonse (Hervé Pierre), dandogli del sentimentalista. lo catechizza ricordandogli che "portare segreti nella tomba è l'essenza del nostro lavoro", sorridendo al cospetto di quella ostentata e a suo avviso ingenua irreprensibilità. Eppure Picquart continua ad avere un ideale molto differente da quello dei suoi colleghi, come precisa a chiare lettere al maggiore Henry (Grégory Gadebois), altro sostenitore dell'insabbiamento: "questo forse è il vostro esercito, non il mio". Proprio con Henry, peraltro, Picquart si ritroverà a combattere in un duello all'arma bianca, di quelli richiesti per "avere soddisfazione", testimonianza storica di quanto la pratica del cosiddetto "scontro tra gentiluomini", nonostante i tentativi di abolirlo sin dai tempi della Rivoluzione francese, continuasse a perdurare ancora a quella data.
C'è spazio anche per uno scambio di battute antiromantico tra Picquart e Pauline Monnier (Emmanuèlle Seigner) che, sentendosi chiedere in sposa da un uomo da sempre contrario al matrimonio, gli risponde "non sei un uomo che si sposa e mi hai fatto capire che anch'io sono così".
Anche la storia dell'arte non può mancare in un film come questo, che vi ricorre sia nella scenografia firmata da Jean Rabasse, che qua e là appende dipinti celebri come Bonaparte valica il Gran San Bernardo di Jacques Louis David (1801), sia nella regia, che trasforma alcune sequenze in veri e propri tableaux vivants. Tra queste si noti soprattutto il gruppo di amici di Piquart, tra cui compare anche Philippe Monnier (Luca Barbareschi), marito della sua amante, Pauline, che viene messo in scena come i protagonisti de Le dejeuner sur l'herbe di Édouard Manet (Musée d'Orsay, 1863), o la posa della stessa Pauline che, disperata per gli eventi, si lascia cadere su una sedia mentre beve, in maniera del tutto simile a L'absinthe di Edgar Degas (Musée d'Orsay, 1875-76).
La degradazione di Dreyfus e due immagini d'epoca |
Quella di Polanski, va ricordato, non si tratta certo della prima versione cinematografica incentrata sul celebre scandalo della Terza Repubblica francese, su cui per primo aveva concentrato la propria attenzione già Georges Méliès, con L'affare Dreyfus (1899), girato addirittura mentre i fatti stavano avvenendo. A questo era seguito, nel 1908, il cortometraggio dallo stesso titolo di Lucien Nonguet e Ferdinand Zecca prodotto dalla Pathé, mentre negli anni '30 l'argomento aveva varcato i confini francesi, arrivando in Germania e stimolando il lavoro dell'austriaco Richard Oswald (Dreyfus, 1930), e quindi negli Stati Uniti, dove un ampio capitolo di The Life of Emile Zola di William Dieterle (1937) è dedicato al caso Dreyfus.
Dopo la Seconda guerra mondiale, L'affare Dreyfus è stato diretto e interpretato dall'istrionico portoricano José Ferrer (1958), mentre, fatta eccezione per un documentario che ricostruisce i fatti (Dreyfus ou l'Intolérable Vérité, 1975), la storia tornerà sugli schermi solo negli anni novanta con Prigionieri dell'onore di Ken Russell (1991) con, ironia della sorte, Richard Dreyfuss nei panni del colonnello Picquart, e ancora L'affare Dreyfus (1995) diretto per la tv francese da Yves Boisset.
Il Gran Premio della Giuria a Venezia per il film di Polanski ha sancito il superamento del preconcetto di una voluta associazione del regista tra se stesso e Dreyfus, tanto più che guardando il film appare chiaro che Polanski non si identifica affatto con il condannato, volutamente rigido e antipatico in modo da non avere i caratteri dell'eroe, quanto piuttosto con Picquart, il vero protagonista della pellicola, non certo senza macchia, e che peraltro, nella finzione, accoppia con la propria compagna nella vita reale, Emmanuelle Seigner, presenza da anni immancabile nei film di Polanski.
Se proprio si sente la necessità di storcere il naso, forse appare più ragionevole notare che in cima alla lista dei produttori, ci sia il nome del magnate russo d'origine ebraica Roman Abramovic, dal passato non certo limpido, e anche l'italiano Luca Barbareschi. I dieci milioni di budget, però, erano necessari per un colossal in costume come questo.
Resta una sola certezza: si tratta dell'ennesima grande opera di uno dei cineasti più rilevanti degli ultimi cinquant'anni; un film la cui importanza non può essere taciuta o sminuita dalle polemiche che, per fortuna, col tempo svaniscono lasciando intatta la qualità della pellicola.
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