lunedì 29 luglio 2019

Nel nome di Antea (Martella 2018)

Il film-documentario di Massimo Martella andrebbe sistematicamente inserito nei programmi scolastici... e se da quelli si cancella persino la storia dell'arte tra le materie da insegnare ai ragazzi?
Mi rendo conto che si tratta di pura utopia, ma tutti dovrebbero vederlo per capire qualcosa in più sul rapporto tra il nostro paese e il patrimonio; cosa è stato fatto per salvarlo, quante persone si sono impegnate per senso dello Stato, per passione, per amore di tutto questo, senza un tornaconto economico o personale (trailer).
Martella incornicia le vicende delle opere d'arte italiane durante la Seconda guerra mondiale in una narrazione fatta in prima persona da alcuni dipinti, che si esprimono come esseri umanizzati e senzienti, un espediente retorico e favolistico, che contrasta con il dramma vissuto in quegli anni, ma che proprio dal punto di vista didattico funziona.

A parlare per prima, ovviamente, è l'Antea di Parmigianino del Museo di Capodimonte che, prima di raccontare i suoi spostamenti, ricorda di essere una nobildonna parmense (la cui identità è per noi ignota) divenuta poi, e rimasta nel titolo tradizionale, una cortigiana romana di cui sarebbe stato innamorato il pittore... potere del gossip!
Le immagini scorrono velocemente, con lunghe soggettive all'interno delle sale dei musei, rigorosamente prive di persone, per continuare ad immaginare, in piena sospensione dell'incredulità, che siano le opere a parlare e a muoversi, cosicché dopo Capodimonte, la Pinacoteca di Brera, dato che l'altro anfitrione è il Ritratto di Alessandro Manzoni dipinto da Francesco Hayez.
A queste parole ed ambienti, si alternano i filmati d'epoca, primo dei quali il discorso di Mussolini del 10 giugno XVIII (dell'era fascista, per tutti 1940), che coincide con l'entrata in guerra dell'Italia, ma anche la celebre frase del generale Mark Wayne Clark, alla guida delle truppe alleate, convinto che "fare la guerra in Italia è come combattere in un maledetto museo”.
È davvero emozionante vedere, montati insieme, i tanti monumenti racchiusi in grosse casse di legno, riempite da sacchi di sabbia per attutire gli eventuali effetti delle bombe, sperando sempre che non fossero colpiti. E invece molti vennero colpiti... gli oltre 200 abbattuti a Genova, il bombardamento del quartiere San Lorenzo a Roma, segno che quel museo a cielo aperto di cui parlava Clark non venne particolarmente tutelato da chi dava gli ordini di fare fuoco.

I dipinti, opere mobili per eccellenza, lo divennero in maniera sistematica: Milano, Londra, Berlino, Urbino, Sassocorvaro, Carpegna, Caprarola, Montecassino, Vaticano...
Quelli espatriati dai nazisti, in nome di una terribile passione per l'arte - Antea dice "in Germania ci amavano di un amore troppo possessivo!" -, vennero in parte recuperati dai cosiddetti Monuments men, in parte sono andati (ir)rimediabilmente perduti - dove quella parentesi è una flebile speranza che ogni tanto si ravviva, come nel recente caso del Vaso di fiori tornato a Palazzo Pitti -, gli altri, per decisione del ministro dell'educazione pubblica, Giuseppe Bottai, andavano difesi in Italia, ma da uffici e soprintendenze che per sua stessa ammissione non erano in grado di farlo nelle loro sedi. E così iniziò l'affannata ricerca di luoghi adatti in cui ricoverarle.
Il Palazzo ducale di Urbino e il grande lavoro di un giovane funzionario trentenne, Pasquale Rotondi, sorpreso per l'incarico di responsabilità affidatogli, svolto con impegno e professionalità esemplari (su di lui esiste anche un bel documentario Rai del 2011, ideato da Giovanni Minoli per il programma Dixit).
Fu lui, peraltro, a decidere di togliere i cartellini dalle casse per non dare indicazioni alle SS, che infatti non riconoscendo i manoscritti di Gioacchino Rossini, ignorarono la cassa ritenendola piena di cartacce, e fu sempre lui, con la sua Balilla, a portare a casa dipinti piccoli ma preziosissimi come La tempesta di Giorgione e altri di Giovanni Bellini o Cosmé Tura, per metterli al sicuro sotto al proprio letto. Per dirla con Giulio Carlo Argan, «Pasquale Rotondi era un intellettuale che amava servire la cultura, piuttosto che servirsene», definizione quantomai illuminante.
Ad Urbino Martella, per raccontare con le immagini, gioca con capolavori arcinoti, cosicché il cielo della Città ideale urbinate si colora di un cielo rosso cupo attraversato dagli aerei.
Rotondi, Wittgens e Bucarelli
L'animazione dei dipinti torna più volte durante il film, e infatti vediamo il piccolo erote alato del tizianesco Amor sacro amor profano della Galleria Borghese muovere davvero l'acqua nella vasca per temperare tra le tipologie d'amore personificate dalle due celebri donne.
Oltre a Bottai e Rotondi, c'è spazio anche per gli altri funzionari che salvarono le opere d'arte, e in primis, per le donne, una rarità in un mondo allora più che oggi così dominato dagli uomini, come Fernanda Wittgens a Milano, per Brera, e Palma Bucarelli a Roma dove, come direttrice della Galleria Nazionale d'Arte Moderna, riuscì ad ottenere lo stesso trattamento per le opere d'arte contemporanea di cui era responsabile, ignorate fino al suo intervento del 1941, e che infatti vennero portate a Caprarola. Anche lei, peraltro, come Rotondi, utilizzò la propria automobile, una Topolino, per aiutare nel trasporto.
La scelta dell'abbazia di Montecassino come luogo sicuro permette a Martella di narrare anche il bombardamento alleato del 15 marzo 1944 e l'attività del colonnello austriaco Julius Schlegel che riuscì, rischiando la corte marziale, a far trasferire in Vaticano l'archivio dell'abbazia e le opere portate lì prima della tragedia, che giunsero a Castel Sant'Angelo sin dal dicembre 1943. Quindici casse, però, presero la via della Germania, con opere come che nel natale di quell'anno giunsero a decorare il salotto della villa di Goering a Berlino.
Rotondi davanti al Palazzo Ducale di Urbino
E poi la collaborazione di Emilio Lavagnino e altri funzionari del ministero, che nel gennaio seguente si rifiutarono di seguire il governo della Repubblica Sociale Fascista a Salò, ma non per questo smisero di salvare le opere. Anche Rotondi aggirò le richieste del ministro Vigini, non consegnando la lista delle opere ricoverate. E così, durante l'ultima estate di guerra, toccò anche a Firenze veder nascondere i propri capolavori, raccolti in più di settemila casse, tra le ville medicee e il castello di Poppi (da qui scomparve la famosa Testa di fauno di Michelangelo, uno dei simboli delle opere perdute in quegli anni); e anche stavolta i tedeschi portarono via circa 500 opere, tra cui la Visitazione di Pontormo, poi recuperate in Alto Adige.
I camion a Sassocorvaro
Il lungo peregrinare della stessa Antea si chiude con quella che la sceneggiatura immagina come una straordinaria storia d'amore, fugace ma densa di emozioni. Giunta dalla Germania in Austria, infatti, la tela si ritrovò a fianco a L'astronomo del Louvre di Jan Vermeer, e furono gli statunitensi a trovarli nascosti in una miniera e a riportarli nei musei di appartenenza...
"Siamo opere d'arte in fondo, siamo idee, siamo libere", commenta Antea, e le idee sono al centro di tutto in storie come questa. Lo precisa anche la stessa Fernanda Wittgens, convinta che bisogni "servire le idee e non i bassi istinti" e che "sarebbe troppo comodo essere intellettuali nei tempi pacifici e diventare codardi o anche semplicemente neutri quando c'è pericolo".

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