L'amore di Spike Lee per New York in un film in cui la Grande Mela, appena ferita dal tragico episodio dell'attentato alle Torri gemelle, fa da sfondo alla quintessenza del dolore... un film duro, angosciante se vissuto identificandosi con il suo protagonista, ma comunque indimenticabile, in una parola: bellissimo!
Sicuramente la pellicola più riuscita del cineasta statunitense dai tempi di quelli che possono essere definiti senza dubbio i quattro anni d'oro della sua carriera, quelli a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, quando nella sua filmografia si succedettero uno dopo l'altro Fa' la cosa giusta, Mo' better blues, Jungle Fever e Malcolm X (1989-1992).
Sicuramente la pellicola più riuscita del cineasta statunitense dai tempi di quelli che possono essere definiti senza dubbio i quattro anni d'oro della sua carriera, quelli a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, quando nella sua filmografia si succedettero uno dopo l'altro Fa' la cosa giusta, Mo' better blues, Jungle Fever e Malcolm X (1989-1992).
A differenza di quei quattro capolavori, però, con La 25ª ora Spike Lee supera la critica che gli è stata mossa più spesso, cioè quella di narrare esclusivamente storie riguardanti la comunità afroamericana, e affronta il dramma di un uomo bianco, d'origine irlandese, che vive la sua ultima giornata di libertà prima di entrare in carcere per i successivi sette anni.
Monty Brogan (Edward Norton) è uno spacciatore scoperto dalla polizia proprio quando era sul punto di smettere e che non si perdona per questo... ha paura di quello che potrà succedergli in carcere e sospetta che la sua splendida fidanzata, Naturelle Riviera (Rosario Dawson), lo abbia tradito denunciandolo alla polizia, nonostante suo padre (Brian Cox) sia convinto del contrario.
Per la serata d'addio riunirà in un locale la ragazza e i suoi due più grandi amici, completamente opposti: Jacob Elinsky (Philip Seymour Hoffman), un ricco ebreo professore di letteratura, impacciato, romantico e innamorato di una sua studentessa minorenne, Mary (Anna Paquin), e Frank Slaughtery (Barry Pepper), irlandese come Monty, un broker cinico ed egocentrico, una tipologia non troppo distante dal Mark Hanna di Matthew McConaughey in The Wolf of Wall Street (Scorsese 2013).
Spike Lee gira magistralmente, e non è certo una novità, ma la sua abilità tecnica, unita ai dialoghi di Benioff e alla fotografia livida di Rodrigo Prieto generano un circolo virtuoso davvero incredibile.
La firma del regista è ben riconoscibile quando vediamo prima Mary e subito dopo Jacob salire sulla mdp ed aggirarsi per il locale in questo modo per alcuni secondi, come accade ad alcuni personaggi dei film del cineasta afroamericano dall'inizio della sua carriera. Tale motivo venne usato per la prima volta - almeno a mia memoria - da Martin Scorsese nella sequenza di Mean Street (1973) in cui Harvey Keitel balla sulla pedana della mdp, e l'amore di Spike Lee per il regista italoamericano è indubitabile, come dimostra anche il brano più celebre de La 25ª ora, lo straordinario monologo di Monty davanti allo specchio, che fa tanto pensare a quello di Travis-De Niro in Taxi Driver (1976).
Eppure, pur se presente nel libro di Benioff, questa parte era stata eliminata dallo sceneggiatore, poiché ritenuta di difficile resa cinematografica, e fu lo stesso Spike Lee a reinserirla poiché convinto, a ragione, che uno dei passi migliori del romanzo avrebbe rappresentato anche una scena basilare del suo film. Il monologo di Ed Norton - splendido per tutto il film... e pensare che inizialmente il ruolo di Monty doveva essere interpretato da Tobey Maguire, poi limitatosi alla produzione, "grazie" al suo ingaggio per Spiderman -, inizia per caso (vedi), quando legge "fuck you" sullo specchio del bagno del locale di suo padre, cogliendo l'occasione per sfogare tutta la sua rabbia contro New York, contro i suoi abitanti e il suo melting pot: ce n'è per tutti, mendicanti, pakistani, gay, coreani, russi, ebrei ortodossi, agenti di borsa, portoricani, dominicani, italiani, afroamericani, poliziotti, preti, Chiesa, Gesù Cristo, Osama Bin Laden e Al Qaeda, fino a chiudere con i suoi migliori amici, Naturelle, suo padre ma, in fondo, nella reale disperazione di quel momento, la rabbia principale è quella contro se stesso ed i suoi errori. Raramente si era visto al cinema un monologo così potente, uno sfogo che paradossalmente è un omaggio a New York e che, nonostante il linguaggio duro, è a tutti gli effetti una modernissima poesia.
Spike Lee, peraltro, oltre alle già evidenziate riprese da pellicole che hanno fatto epoca, omaggia la storia del cinema con alcune citazioni rapsodiche: dietro il divano di Monty è appeso il poster di Nick mano fredda (Rosenberg 1967), non a caso film su un condannato alla reclusione che in prigione diviene simbolo di ribellione; lo stesso Monty si chiama così, come rivela suo padre, perché la mamma adorava Montgomery Clift e il suo ruolo in Un posto al sole (Stevens 1951); Monty dice a Naturelle di voler essere come la ragazza che passa attraverso i muri degli X-Men (riferimento al personaggio di Kitty Pride/Shadowcat della saga); infine nel monologo allo specchio Monty ironizza sugli italiani citando i Soprano e, scusate la personalissima suggestione, ma sentirgli pronunciare l'espressione wrapped in plastic, anche se riferita ai fiori avvolti nella plastica dei coreani, evoca in me Twin Peaks, ai tempi del quale quella frase era diventata persino il titolo della fanzine della serie targata Lynch-Frost.
Tutta la pellicola, in realtà, è un continuo susseguirsi di sequenze di grandissimo livello: Monty che decide di salvare un cane ferito nonostante le paure del suo guardaspalle ucraino, Kostya, preoccupato dalla legge di Murphy ("Tutto quello che potrà andare storto, andrà storto"), che però lui chiama legge di Doyle, motivo per il quale il cane prenderà quel nome; i dialoghi tra i tre amici, su cui spicca naturalmente quello già citato tra Jacob e Frank davanti a Ground Zero, ma anche quello durissimo tra Frank e Naturelle, in cui i due si rinfacciano le reciproche "colpe"; i flashback di Monty, quello in cui ricorda il momento in cui la polizia lo ha incastrato e la prima volta che ha visto Naturelle, ancora diciassettenne in tenuta da collegiale; la passeggiata a Central Park e Monty che chiede a Frank di cambiargli i connotati, una sequenza girata al ralenti e con alcuni momenti in soggettiva, ma soprattutto dallo straordinario lavoro sul sonoro, azzerato totalmente, eccezion fatta per il rumore del volo degli uccelli e poi per il latrato di Doyle.
Il finale, quello della 25ª ora del titolo, risolve il rischio di un eccesso di retorica galleggiando tra realtà e immaginazione, con Monty che pensa al suo futuro ipotizzando una fuga verso ovest, evocazione della conquista del west che è una buona fetta di storia degli Stati Uniti... d'altronde come gli ricorda il padre "sai perché sono sorte queste cittadine nel deserto? Perché qualcuno voleva scappare in un altro posto"...
La sceneggiatura, splendida, è un adattamento di David Benioff dal proprio romanzo d'esordio, uscito l'anno prima con lo stesso titolo del film. Ad essa Spike Lee ha aggiunto tutto ciò che riguarda Ground Zero: dai fasci di luce dei titoli di testa che rimandano ai due grattacieli, alle foto dei vigili del fuoco nel pub del padre di Monty, fino alla toccante sequenza del dialogo tra Jacob e Frank, che si svolge davanti ad una grande finestra che dà sullo slargo in cui si vedono le ruspe che continuano a lavorare per rimuovere i resti della tragedia.
A questo e a tutto il resto fa da sottofondo l'eccezionale colonna sonora, di Terence Blanchard, già più volte collaboratore di Spike Lee sin dai tempi di Jungle Fever (1991), che alterna brani originali, come la stessa Ground Zero o Fu Montage che mettono i brividi, ad altri di Bruce Springsteen (The Fuse), dei Cymande (Bra), e soprattutto dei Liquid Liquid, la cui Cavern viene ballata in pista da Mary e a Naturelle e, non ce ne voglia Anna Paquin, ma Rosario Dawson che danza fissando la mdp fasciata in un vestito color argento è indimenticabile...
Spike Lee gira magistralmente, e non è certo una novità, ma la sua abilità tecnica, unita ai dialoghi di Benioff e alla fotografia livida di Rodrigo Prieto generano un circolo virtuoso davvero incredibile.
La firma del regista è ben riconoscibile quando vediamo prima Mary e subito dopo Jacob salire sulla mdp ed aggirarsi per il locale in questo modo per alcuni secondi, come accade ad alcuni personaggi dei film del cineasta afroamericano dall'inizio della sua carriera. Tale motivo venne usato per la prima volta - almeno a mia memoria - da Martin Scorsese nella sequenza di Mean Street (1973) in cui Harvey Keitel balla sulla pedana della mdp, e l'amore di Spike Lee per il regista italoamericano è indubitabile, come dimostra anche il brano più celebre de La 25ª ora, lo straordinario monologo di Monty davanti allo specchio, che fa tanto pensare a quello di Travis-De Niro in Taxi Driver (1976).
Eppure, pur se presente nel libro di Benioff, questa parte era stata eliminata dallo sceneggiatore, poiché ritenuta di difficile resa cinematografica, e fu lo stesso Spike Lee a reinserirla poiché convinto, a ragione, che uno dei passi migliori del romanzo avrebbe rappresentato anche una scena basilare del suo film. Il monologo di Ed Norton - splendido per tutto il film... e pensare che inizialmente il ruolo di Monty doveva essere interpretato da Tobey Maguire, poi limitatosi alla produzione, "grazie" al suo ingaggio per Spiderman -, inizia per caso (vedi), quando legge "fuck you" sullo specchio del bagno del locale di suo padre, cogliendo l'occasione per sfogare tutta la sua rabbia contro New York, contro i suoi abitanti e il suo melting pot: ce n'è per tutti, mendicanti, pakistani, gay, coreani, russi, ebrei ortodossi, agenti di borsa, portoricani, dominicani, italiani, afroamericani, poliziotti, preti, Chiesa, Gesù Cristo, Osama Bin Laden e Al Qaeda, fino a chiudere con i suoi migliori amici, Naturelle, suo padre ma, in fondo, nella reale disperazione di quel momento, la rabbia principale è quella contro se stesso ed i suoi errori. Raramente si era visto al cinema un monologo così potente, uno sfogo che paradossalmente è un omaggio a New York e che, nonostante il linguaggio duro, è a tutti gli effetti una modernissima poesia.
Spike Lee, peraltro, oltre alle già evidenziate riprese da pellicole che hanno fatto epoca, omaggia la storia del cinema con alcune citazioni rapsodiche: dietro il divano di Monty è appeso il poster di Nick mano fredda (Rosenberg 1967), non a caso film su un condannato alla reclusione che in prigione diviene simbolo di ribellione; lo stesso Monty si chiama così, come rivela suo padre, perché la mamma adorava Montgomery Clift e il suo ruolo in Un posto al sole (Stevens 1951); Monty dice a Naturelle di voler essere come la ragazza che passa attraverso i muri degli X-Men (riferimento al personaggio di Kitty Pride/Shadowcat della saga); infine nel monologo allo specchio Monty ironizza sugli italiani citando i Soprano e, scusate la personalissima suggestione, ma sentirgli pronunciare l'espressione wrapped in plastic, anche se riferita ai fiori avvolti nella plastica dei coreani, evoca in me Twin Peaks, ai tempi del quale quella frase era diventata persino il titolo della fanzine della serie targata Lynch-Frost.
Tutta la pellicola, in realtà, è un continuo susseguirsi di sequenze di grandissimo livello: Monty che decide di salvare un cane ferito nonostante le paure del suo guardaspalle ucraino, Kostya, preoccupato dalla legge di Murphy ("Tutto quello che potrà andare storto, andrà storto"), che però lui chiama legge di Doyle, motivo per il quale il cane prenderà quel nome; i dialoghi tra i tre amici, su cui spicca naturalmente quello già citato tra Jacob e Frank davanti a Ground Zero, ma anche quello durissimo tra Frank e Naturelle, in cui i due si rinfacciano le reciproche "colpe"; i flashback di Monty, quello in cui ricorda il momento in cui la polizia lo ha incastrato e la prima volta che ha visto Naturelle, ancora diciassettenne in tenuta da collegiale; la passeggiata a Central Park e Monty che chiede a Frank di cambiargli i connotati, una sequenza girata al ralenti e con alcuni momenti in soggettiva, ma soprattutto dallo straordinario lavoro sul sonoro, azzerato totalmente, eccezion fatta per il rumore del volo degli uccelli e poi per il latrato di Doyle.
Il finale, quello della 25ª ora del titolo, risolve il rischio di un eccesso di retorica galleggiando tra realtà e immaginazione, con Monty che pensa al suo futuro ipotizzando una fuga verso ovest, evocazione della conquista del west che è una buona fetta di storia degli Stati Uniti... d'altronde come gli ricorda il padre "sai perché sono sorte queste cittadine nel deserto? Perché qualcuno voleva scappare in un altro posto"...
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