lunedì 15 ottobre 2018

At eternity's gate (Schnabel 2018)

Julian Schnabel pittore prima che regista. Nel suo film su Van Gogh (in Italia è uscito due mesi dopo questa recensione con il titolo di Van Gogh. Sulla soglia dell'eternità) è particolarmente evidente, e non solo perché l'artista olandese racconta la storia in prima persona, con tanto di voce off, con un sonoro che si adatta spesso alla percezione distorta del protagonista, così come la mdp che si sostituisce ai suoi occhi in continue soggettive, accompagnando lo spettatore en plein air tra campi di di girasoli, davanti ad alberi nodosi, o ancora all'interno della celebre stanza di Arles, tutto sempre reso attraverso la deformazione espressionistica della realtà che caratterizzerà i dipinti di Vincent (trailer).

Il regista, infatti, data la sua formazione, più di quanto succeda solitamente ad altri, cerca un'identificazione totale col suo protagonista, e in questo caso avere a disposizione un grandissimo attore migliora le cose, ma è difficile immaginare cosa sarebbe At ernity's gate senza Willem Dafoe.
Tutto, infatti, è molto didascalico, una sorta di catalogo di Van Gogh in movimento, in cui l'unico obiettivo di chi guarda sembra essere quello di riconoscere i luoghi dei dipinti o i personaggi dei ritratti.
Vincent incontra Gauguin (Oscar Isaac), che non tollera la comunità di artisti burocratizzati di Parigi e vuole essere un artista totalmente indipendente, come solo nell'Ottocento fu possibile concepire; ma qui e là vediamo anche madame Ginoux, che diverrà immortale come l'Arlesiana (Emmanuelle Seigner), il postino Roulin, il dottor Gachet (Mathieu Amalric) e, come già detto, anche la stanza di Arles, una delle più famose della storia dell'arte, con il suo letto, la coppia di sedie di paglia e la piccola scrivania sotto la finestra con le ante socchiuse.
La sua visione deformata della realtà è dominante sin da una delle sue prime esternazioni, come quando davanti ad un paesaggio esclama "in campagna vedo l'eternità. Sono l'unico a vederla?"
Allo stesso tempo, il suo temperamento e le sue idiosincrasie sociali emergono presto: urla contro i ragazzini di una scolaresca che guardandolo lavorare lo trattano come un inetto perché colora di azzurro le radici di un albero, mentre la loro maestra rincara la dose "oggi ognuno può dire di essere un artista"; viene picchiato in strada perché rincorre un ragazzo che lo ha deriso.
Il rapporto con l'amato fratello Theo (Rupert Friend) è delineato con pochi tocchi: basta vederli insieme nella bella immagine di Vincent che si rannicchia in posizione fetale al suo fianco, per comprendere quanto sia impari una relazione nella quale il pittore è colui che va costantemente accudito come un bambino.
Vincent a Parigi divora di attenzione i dipinti del Louvre e soprattutto Delacroix, Gericault, Hals, Goya, Velazquez e Veronese, mentre al primo dedica anche una visita a Saint Sulpice per ammirare il meraviglioso Giacobbe e l'angelo. Nonostante l'apprezzamento per chi è venuto prima di lui, la sua idea della pittura è riassunta in poche parole: "il dipinto lo trovo già nella natura, devo solo liberarlo", una frase così palesemente desunta dall'idea che della scultura aveva Michelangelo, da renderla completamente falsa detta da Van Gogh, a cui la sceneggiatura fa pronunciare altre frasi da manuale e ad effetto, davvero poco credibili: e così lo sentiamo dire "io sono i miei dipinti", "dipingo la luce del sole", mentre al prete (Mads Mikkelsen) che, convinto dipinga cose sgradevoli, gli chiede se Dio a suo avviso gli abbia dato il dono della pittura, risponde "sì, è l'unico dono che mi ha fatto", ma anche che "forse mi fa dipingere per persone che ancora non sono nate", d'altronde "anche Cristo era ignoto da vivo" (e farlo dire proprio a Dafoe, che è stato Gesù nello scorsesiano L'ultima tentazione di Cristo, è evidentemente un ulteriore passo falso).
La ricostruzione della posa del dottor Gachet
Anche Gauguin ha battute cattedratiche: ironizza sul declino degli impressionisti, ormai impegnati esclusivamente a ritrarre i propri familiari; è profeticamente consapevole che il mondo dell'arte stia cambiando e che i pittori prima o poi saranno più importanti del soggetto dei loro quadri, affermando che "si andrà nei musei per vedere i dipinti delle persone e non le persone dipinte". Eppure anche lui è lontano dal comprendere l'arte dell'amico, a cui imputa di usare masse di colore troppo corpose ("sembra una scultura!").
Per i primi successi Vincent dovrà aspettare il celebre articolo di Albert Aurier sul Mercure (gennaio 1890), in cui il critico d'arte lo annovera tra gli "isolées" proprio perché lo considera troppo all'avanguardia rispetto ai contemporanei.
Troppi i film su Van Gogh perché questo di Julian Schnabel rimanga nella memoria più di altri. Solo per citare i più famosi, come non pensare ai capolavori del 1990 firmati Robert Altman (Vincent and Theo) e Akira Kurowasa (Sogni), e ancora prima da Vincente Minnelli (Brama di vivere, 1956)? Se la pellicola non può essere paragonata a queste, però, lo stesso non si può dire di Willem Dafoe che, dopo aver vinto la Coppa Volpi a Venezia per la migliore interpretazione maschile, entra di diritto in una prestigiosa galleria di interpreti del pittore insieme a Tim Roth, Martin Scorsese e Kirk Douglas, che lo hanno preceduto.

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