martedì 23 ottobre 2018

Opera senza autore (Henckel von Donnersmarck 2018)

Il terzo lungometraggio di Florian Henckel von Donnersmarck torna alle atmosfere cupe della Germania Est tra nazismo e regime sovietico, che aveva caratterizzato il suo film più celebre e finora meglio riuscito, Le vite degli altri (2006), che gli è poi valso la parentesi hollywoodiana di The Tourist (2010), interpretato da Angelina Jolie e Johnny Depp.
Stavolta il soggetto è ispirato alla vita del pittore Gerhard Richter, di cui si è occupato il giornalista Jürgen Schreiber nel suo libro Ein Maler aus Deutschland. Gerhard Richter. Das Drama einer Familie (2015).
Da quello, però, il regista si distanzia molto, a partire dal nome del protagonista, forzando molto sulla chiave romantica della sua vita, in barba alla reale biografia di Richter che, però, a onor del vero, avrà altre due mogli ma fuori dai confini temporali della narrazione del film, negli anni '80 e '90; al tempo stesso offre una chiave di lettura che pone al centro l'immarcescibilità del potere, a prescindere dagli stravolgimenti politici, evidenziando il male in quella bieca capacità di alcuni individui di rimanere in piedi sempre e comunque, pronti ad assecondare e adulare il potente di turno per il proprio tornaconto.

Nel 1937 Kurt Barnert (Tom Schilling) è un bambino durante l'ascesa di Hitler ed è la sua giovane e bellissima zia, Elisabeth (Saskia Rosendahl), che lo instrada all'amore per l'arte contemporanea in anni in cui le avanguardie vengono viste in Germania come pura degenerazione e segno palese del mancato rispetto per le istituzioni, un'interpretazione espressionista del reale che non può affascinare chi vede il mondo come una serie di ordini da dettare e da eseguire. 
Una volta cresciuto, Kurt coltiverà la sua passione frequentando l'accademia, dove conoscerà la sua futura compagna di vita e moglie, Ellie Seeband (Paula Beer), studentessa di moda e figlia di un importante chirurgo capace di rimanere in auge sia negli anni del nazismo che ora, durante il governo sovietico della Germania Est. Da qui Kurt e Ellie andranno via nel 1961, poco prima della costruzione del muro, e a Dusseldorf Kurt scoprirà l'arte moderna, fino ad allora negatagli nell'altro versante del paese, dove si era imposto soprattutto come pittore di regime.
Vicenda professionale e privata si fonderanno sorprendentemente, ma solo lo spettatore saprà quanto...
Quest'ultimo aspetto, hitchcockiano oltre Hitchcock, è forse l'elemento più interessante della pellicola. Solo chi guarda, infatti, è veramente a conoscenza di tutte le pieghe della trama, che sfugge persino ai protagonisti stessi.
Altri aspetti non convincono e pongono il film in una sorta di limbo tra cinema e sceneggiato televisivo tedesco vecchio stampo. La storia d'amore tra Kurt e Ellie spesso scade nel fotoromanzesco e l'idea dei clacson di diversi bus suonati all'unisono ad un capolinea su richiesta di zia Elisabeth, che si inebria di quel rumore assordante, non è delle migliori, tanto più che il momento che dovrebbe essere di massima empatia tra il personaggio e lo spettatore risulta goffamente nonsense, vedendo l'attrice aprire le braccia e la mdp girarle attorno, in una sequenza che tanto ricorda quello che accadeva in Highlander (Mulcahy 1986) quando uno degli immortali tagliava la testa ad un proprio simile, assorbendone l'energia, "la reminiscenza".

Kurt è l'eroe positivo, che attraversa l'età nazista, quella della Germania dell'est retta dall'Unione sovietica e, infine, passa alla Germania occidentale poco prima della costruzione del muro, senza mai abdicare alle proprie idee, alle proprie convinzioni, ma soprattutto alle proprie passioni, andando, contro ogni consiglio, a Düsseldorf, la città tedesca che più di ogni altra è al passo con l'arte moderna. L'arte è ormai lontana dal figurativo ancora dominante a est, e l'idea, come gli spiega uno dei giovani artisti che lo instrada a questa nuova realtà, è decisamente più importante della tecnica esecutiva nonché dell'estetica di un'opera. Kurt non solo capirà la direzione, dopo aver tentato le vie degli altri, spruzzando colori sulla tela (Jackson Pollock), tagliando tele (Lucio Fontana), creando sculture in cartapesta (George Segal), ecc., ma troverà nella realtà la soluzione, riuscendo a mettere in pratica la filosofia artistica insegnatagli dalla zia quando era solo un bambino, quel "tutto ciò che è vero e bello", che trova forma nel fotorealismo, con le foto-pitture che resero celebre Gerard Richter negli anni della Pop Art e la cui tecnica viene riprodotta anche nella locandina del film, con le foto degli attori principali "sfocati" dall'effetto del pennello. Tra le tante citazioni di personaggi e di tecniche artistiche di quel momento storico, il professore lì a Düsseldorf è Antonius van Verten (Oliver Masucci), chiaramente ispirato a Beuys e al suo grasso e feltro, i materiali con cui fu curato dai contadini quando si salvò miracolosamente precipitando con il suo aereo durante la Seconda guerra mondiale.
Il dottor Carl Seeband (Sebastian Koch), all'opposto di Kurt, è un trasformista: è prima un medico nazista, pronto ad uccidere i pazienti per assecondare le finalità eugenetiche del regime; poi ottiene la stima di un maggiore sovietico, che da dirigente del KGB lo proteggerà nascondendone il passato, un passato che però traspare in ogni sequenza...
Van Donnesmarck dimostra quanto sia difficile delineare ruoli positivi al cinema: Kurt è un personaggio piatto, incolore, ed è Carl, indubbiamente, il personaggio meglio riuscito, figura per cui è inevitabile pensare a Josef Mengele e di conseguenza al recente The German Doctor - Wakolda (Puenzo 2013).
C'è spazio anche per qualche curiosità, cosicché guardando il film scopriamo che i tedeschi che durante il regime non volevano piegarsi al saluto nazista potevano mascherare il tristemente famoso "heil Hitler" bofonchiando un assonante "drei liter" che, pronunciato velocemente, non poteva essere decifrato da chi ascoltava, un espediente a quanto pare usato spesso in Austria al tempo (leggi).
Un film che forse avrebbe trovato la sua  migliore dimensione in uno sviluppo seriale a più puntate, ma che anche così ha la sua ragione d'essere in quella malata sete di potere e, ovviamente, in quella relazione tutta hitchcockiana tra il regista e il suo pubblico in sala.

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