È sorprendente come anche un film "minore" di Ingmar Bergman possa contenere tanti elementi che hanno influenzato il cinema più recente: potere dei grandi maestri del cinema.
A proposito di tutte queste signore, che il regista svedese girò ispirandosi con ironia alla sua stessa biografia (secondo alcuni deriverebbe da una pièce che imbarazzò Bergman a Stoccolma), palesa qui è lì dettagli, personaggi e motivi che si ritrovano in François Truffaut, Woody Allen, Wes Anderson, persino Sergio Leone.
Il film ha un'impostazione profondamente teatrale, pochissimi esterni, molta recitazione, con gli attori che sembrano muoversi come se fossero su un palco. La trama è molto semplice: il grande violoncellista Felix è morto, e nella camera ardente arrivano diverse donne della sua vita, proprio come accadrà all'inizio de L'uomo che amava le donne (Truffaut 1977); e, come in quello, un flashback porta la storia indietro di qualche giorno, quando nella villa di Felix giunge Cornelius (Jarl Kulle), uno stimato critico musicale che sta completando la biografia del maestro. La stessa parodia del critico, che fa questo mestiere come ripiego, pur considerandosi un grande musicista, verrà riassunta da François Truffaut in una sua celebre linea di sceneggiatura de L'amore fugge (1978) , in cui Doinel dice al figlio "studia bene il violino, Alphonse, se studi e hai talento diventerai un grande musicista". "E se non lo faccio?" "Se non studierai, e prenderai molte stecche, farai il critico musicale".
Durante il suo soggiorno nella villa Cornelius non riuscirà mai a vedere Felix, sorta di Godot beckettiano, trascorrendo così le sue giornate in compagnia degli altri abitanti della villa: l'impresario Jillker (Allan Edwall), il maggiordomo Tristano (Georg Funkquist) e soprattutto le sette donne che gravitano attorno al maestro: Adelaide (Eva Dahlbeck), la moglie, Chimera (Bibi Andersson), l'amante ufficiale, e le altre cinque amanti, Madame Tussaud (Karin Kavli), Beatrice (Barbro Hiort af Ornäs), Traviata (Gertrud Fridh), Cecilia (Mona Malm), Isolde (Harriet Andersson), che si dividono a turno l'amore dell'invisibile protagonista.
Durante il suo soggiorno nella villa Cornelius non riuscirà mai a vedere Felix, sorta di Godot beckettiano, trascorrendo così le sue giornate in compagnia degli altri abitanti della villa: l'impresario Jillker (Allan Edwall), il maggiordomo Tristano (Georg Funkquist) e soprattutto le sette donne che gravitano attorno al maestro: Adelaide (Eva Dahlbeck), la moglie, Chimera (Bibi Andersson), l'amante ufficiale, e le altre cinque amanti, Madame Tussaud (Karin Kavli), Beatrice (Barbro Hiort af Ornäs), Traviata (Gertrud Fridh), Cecilia (Mona Malm), Isolde (Harriet Andersson), che si dividono a turno l'amore dell'invisibile protagonista.
La scenografia della villa ha uno stile composito: pareti bianche, colonne, arcate traforate, goticheggianti, ad archi inflessi, qualcosa di simile alle strutture di Rapporto confidenziale o dell'Otello di Orson Welles; ma anche statue neoclassiche ovunque e mosaici ai pavimenti.
E poi le gag degne di Charlie Chaplin o Buster Keaton, che vedono protagonista Cornelius che involontariamente toglie dalla colonna un enorme busto di Felix, mentre una musica da comica fa da sottofondo; sente cantare un uccellino vicino a lui che dopo i primi giudizi fatalmente fa i suoi bisogni dell'occhio del critico; si traveste da donna per attirare l'attenzione di Felix; lascia cadere distrattamente un sigaro acceso che causa l'esplosione di fuochi d'artificio.
Proprio li personaggio di Cornelius merita qualche riflessione, per l'evidente influenza determinata in seguito: basti pensare a quanto gli somiglino alcuni ruoli interpretati da Peter Sellers, o il maggiordomo Gustave cui presta il volto Ralph Fiennes in Grand Budapest Hotel (Andreson 2014).
In una delle tante sequenze in cui il critico musicale si lascia sedurre dalle sensuali donne della villa, inoltre, mentre lo vediamo ballare con Chimera, la pellicola diventa color seppia, come accadrà nel capolavoro metacinematografico di Woody Allen Broadway Danny Rose (1984). E, infine, quando lo troviamo a letto con la stessa donna, la mdp li riprende dall'alto di un letto a baldacchino inquadrando gli attori sfruttando la trasparenza del telo soprastante, un dettaglio che diverrà una sorta di firma di Sergio Leone in C'era una volta il West (1968) e C'era una volta in America (1984), in cui così verranno inquadrati rispettivamente Jill-Claudia Cardinale e Noodles-Robert De Niro.
Il film è il primo a colori girato da Bergman, eppure per tanti versi sembra guardare indietro, come nella sequenza notturna in cui Cornelius gira per la villa con la papalina bianca, un a mise che non può non ricordare Groucho ne La guerra lampo dei fratelli Marx (1933), o ancora più evidentemente nelle didascalie da cinema del muto che scandiscono la pellicola, talvolta in maniera davvero originale, come quando indicano che "il film è finito" o ammiccano allo spettatore dichiarando ad esempio che "questi fuochi non vanno interpretati simbolicamente", una ennesima stilettata di Bergman a quei critici che avevano interpretato in maniera errata alcuni elementi dei suoi lavori precedenti.
Diverse le frasi identitarie del film, dalle "vedove" che passano davanti alla bara di Felix e ripetono "così gelido eppure così vivo", alla battuta che condensa il rapporto (polemico) tra artista e critica, tratta da Goethe, "genio è colui che riesce a far mutare opinione a un critico". Quella che però riassume l'essenza della vicenda è pronunciata da Cornelius che, dopo le innumerevoli peripezie, prorompe definendo la villa "questo manicomio, dove nessuna è quella che è, nessuna dorme nel suo letto, nessuna porta il suo nome".
In una delle tante sequenze in cui il critico musicale si lascia sedurre dalle sensuali donne della villa, inoltre, mentre lo vediamo ballare con Chimera, la pellicola diventa color seppia, come accadrà nel capolavoro metacinematografico di Woody Allen Broadway Danny Rose (1984). E, infine, quando lo troviamo a letto con la stessa donna, la mdp li riprende dall'alto di un letto a baldacchino inquadrando gli attori sfruttando la trasparenza del telo soprastante, un dettaglio che diverrà una sorta di firma di Sergio Leone in C'era una volta il West (1968) e C'era una volta in America (1984), in cui così verranno inquadrati rispettivamente Jill-Claudia Cardinale e Noodles-Robert De Niro.
Il film è il primo a colori girato da Bergman, eppure per tanti versi sembra guardare indietro, come nella sequenza notturna in cui Cornelius gira per la villa con la papalina bianca, un a mise che non può non ricordare Groucho ne La guerra lampo dei fratelli Marx (1933), o ancora più evidentemente nelle didascalie da cinema del muto che scandiscono la pellicola, talvolta in maniera davvero originale, come quando indicano che "il film è finito" o ammiccano allo spettatore dichiarando ad esempio che "questi fuochi non vanno interpretati simbolicamente", una ennesima stilettata di Bergman a quei critici che avevano interpretato in maniera errata alcuni elementi dei suoi lavori precedenti.
Diverse le frasi identitarie del film, dalle "vedove" che passano davanti alla bara di Felix e ripetono "così gelido eppure così vivo", alla battuta che condensa il rapporto (polemico) tra artista e critica, tratta da Goethe, "genio è colui che riesce a far mutare opinione a un critico". Quella che però riassume l'essenza della vicenda è pronunciata da Cornelius che, dopo le innumerevoli peripezie, prorompe definendo la villa "questo manicomio, dove nessuna è quella che è, nessuna dorme nel suo letto, nessuna porta il suo nome".
Un'ultima notazione per la bellissima sequenza del ninfeo ad arcate popolate di statue, come quello di Villa Adriana a Tivoli, durante la quale Cornelius fa il bagno con una buffa ciambella a forma di cigno, dietro la quale si nasconderà per ascoltare le confidenze delle "signore" del titolo che raggiungeranno il proscenio alla spicciolata.
Quando si pensa ad Ingmar Bergman, questo film non è certo tra i primi ad essere citato, eppure nella sua breve durata (80' circa) c'è tantissimo cinema del passato e del futuro.
Quando si pensa ad Ingmar Bergman, questo film non è certo tra i primi ad essere citato, eppure nella sua breve durata (80' circa) c'è tantissimo cinema del passato e del futuro.
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