domenica 5 agosto 2018

Lazzaro Felice (Rohrwacher 2018)

Il film di Alice Rohrwacher, oltre a essere bello e riuscito, regala la piacevole sensazione di un cuscino in cui affondare comodamente la testa, godendosi un'antologia del migliore cinema italiano, rilavorato, reinterpretato, aggiornato, ma ben saldo nell'immaginario della regista fiesolana (trailer).
Lazzaro felice è una fiaba neorealistica ambientata tra l'hinterland e la periferia milanese, e già solo questo lo pone in maniera inequivocabile sulla scia del magnifico Miracolo a Milano (De Sica 1951), ma i suoi personaggi e le sue scene fanno spesso pensare a Pasolini, a Rossellini, a Olmi e ovviamente a Fellini.
In un piccolo borgo noto come l'Inviolata, una cinquantina di contadini vivono come mezzadri, sfruttati dalla marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), imprenditrice del tabacco. Lavorano tutti nelle piantagioni e vivono una vita molto simile a quella che il cinema di Ermanno Olmi ha illustrato splendidamente ne L'albero degli zoccoli (1978).
La mezzadria, però, è stata abolita nel 1964, e anche se non subito, lo spettatore avrà modo di notare che la storia, invece, è ambientata ben oltre questa data. Siamo infatti alla fine degli anni novanta, a giudicare dal cellulare "StarTAC" - messo in commercio tra 1996 e 1997 - che uno dei protagonisti tiene in tasca, ancora un oggetto per pochi, e non a caso la tasca in questione è quella di Tancredi (Luca Chikovani), figlio della marchesa.
A tenere in piedi il "grande inganno" una fantomatica alluvione che ha isolato l'Inviolata, separata dal mondo moderno da un fiume che nessuno osa attraversare ("questi hanno paura di tutto", noterà uno dei carabinieri che libererà i contadini). La comunità si considera un'unica famiglia, i cui membri spesso non conoscono i gradi di parentela che li legano agli altri, fatta eccezione per la nonna, ormai immobilizzata a letto o su una sedia e che proprio Lazzaro (Adriano Tardiolo) ha il compito di spostare da un luogo a un altro tenendola in braccio: una donna così minuta da rimandare alla "nonna piccola" di felliniana memoria (Roma - 1972; vedi).
Nicola (Natalino Balasso) fa da sensale tra la marchesa De Luna e i mezzadri; a lui spetta il compito di conteggiare il lavoro fatto in termini di raccolto trovando sempre il modo di porre i contadini in debito con la proprietà, imbonendoli con frasi ipocrite con cui li definisce i "veri ricchi" perché ancora legati ai prodotti della terra e ai sapori genuini.
La vita dell'Inviolata scorre così, tra il lavoro, tanto, i frugali pasti, pochi, consumati tutti insieme, mentre le nuove generazioni provano a prendersi almeno il diritto all'amore, che però viene mortificato dall'impossibilità di lasciare quel luogo. La storia, peraltro, inizia proprio con una bella sequenza di matrice pasoliniana che racconta una serenata accompagnata dalle zampogne, un dettaglio tipico della campagna centro-meridionale, che palesa il disinteresse della regista per un'ambientazione ben collocata nello spazio, confermata anche dai diversi dialetti usati, in una sceneggiatura che alterna quello del contado romano, parlato dai braccianti, a quello toscano, dei marchesi, fino al rovigotto di Nicola.
In questo contesto nasce la strana amicizia interclassista tra Tancredi, adolescente che si ribella alla madre, anche per come sta gestendo l'Inviolata, e Lazzaro, il giovane contadino non particolarmente intelligente, "talmente buono da sembrare stupido", che fa pensare ancora all'ingenuo Totò zavattiniano, protagonista di Miracolo a Milano.
Proprio quest'amicizia rappresenta uno dei temi principali della pellicola, capace di superare anche il "grande inganno" messo in atto per anni dalla marchesa De Luna ai danni dei braccianti.
Il legame tra i due si salderà grazie all'aiuto che Lazzaro darà a Tancredi, inscenando un finto rapimento, ignorato con toni derisori da parte della marchesa, ma preso sul serio dalla figlia di Nicola, Teresa, la cui telefonata alla polizia per salvare il coetaneo aprirà il vaso di Pandora dell'Inviolata.
Solo Lazzaro rimarrà ignaro di quanto avvenuto, grazie ad un espediente narrativo che lo metterà fuori scena nel momento nevralgico della vicenda e, durante il quale, la sceneggiatura, premiata a Cannes, si appoggia alla bella fiaba di San Francesco e il lupo di Chiara Frugoni, letta dalla piccola Antonia (Agnese Graziani), giovanissima, ma già con responsabilità da adulta.
La Rohrwacher, oltre a giocare con il luogo d'ambientazione, fa la stessa cosa con il tempo d'azione, cosicché anni dopo Lazzaro incontrerà parte dei contadini invecchiati - guidati da Antonia, ormai donna (Alba Rohrwacher) -, increduli di vederlo ancora giovane come allora. Per Lazzaro il tempo si è fermato, il suo ritorno viene visto come una resurrezione (come il suo più celebre omonimo), davanti alla quale i contadini più anziani perderanno velocemente l'incanto iniziale, cosicché, rispetto alla necessità di Lazzaro di nutrirsi, qualcuno si sorprende - "perché er diavolo magna?" - e, badando ancor di più al pragmatismo, altri affermano "anche che è un fantasma, deve lavora' !"
Anche l'amicizia improvvisamente interrotta anni prima vivrà un'appendice urbana, grazie all'incontro di Lazzaro con Tancredi (Tommaso Ragno), ormai caduto in disgrazia ma sempre pronto a scherzare e a prendersi gioco del prossimo: un personaggio che appare come una versione moderna di uno de I vitelloni (1953) felliniani.
La visione poetica e antirealistica contrasta con il realismo dei rapporti sociali, particolarmente evidenti nella condizione dei contadini prima e dopo l'inganno. Nonostante gli iniziali proclami della stampa, infatti, il gruppo di reduci dell'Inviolata passerà dalla mezzadria al sottoproletariato, costretti a vivere di espedienti e di piccole truffe abitando in una cisterna dismessa tra i binari della ferrovia.
Forse la loro situazione è persino peggiorata nel passaggio dalla campagna alla città: prima erano solo sfruttati e ingannati, ora devono adeguarsi ad ingannare, quasi che l'urbanizzazione comporti necessariamente un imbarbarimento morale. E fanno pensare ad una lettura simile le antenne dei ripetitori che, viste da lontano e nella totale ignoranza di tutto ciò che fosse moderno, facevano gridare alla visione estatica, in città perdono completamente quel fascino soprannaturale che avevano viste dalla campagna.
Tra i personaggi più fiabeschi del film, inoltre, va ricordato uno dei mezzadri che con la bocca è in grado di imitare il rumore del vento. Proprio la percepibilità dell'impercepibile è uno dei caratteri distintivi del film, riproposta anche in una delle sequenze più poetiche in assoluto: gli ex mezzadri, dopo aver subito l'ennesima sconfitta, affrontata con il massimo della dignità, entrano in una chiesa per ascoltare il suono dell'organo (si sente Bach) e, una volta allontanati da una suora, sarà proprio la musica a seguirli preferendo la loro purezza ("la musica se ne va") alla grettezza di quelle religiose, mentre Lazzaro piange al chiar di luna come un novello Pierrot.
Per l'ennesima volta una sequenza che avrebbero certamente amato sia Federico Fellini che Pier Paolo Pasolini...

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