L'ultimo film di Robert Guédiguian è uno di quelli che permette di uscire dal cinema contenti, commossi, rappacificati con le ideologie e sereni nei confronti del futuro.
La villa, che in Italia è diventata La casa sul mare, è un capolavoro fatto di poesia, amore, solidarietà e riflessione, ben girato e splendidamente scritto e interpretato (trailer).
Tre fratelli di mezza età, Angèle (Ariane Ascaride), Armand (Gérard Meylan) e Joseph (Jean-Pierre Darroussin), si ritrovano nella casa del titolo, nella piccola Méjean, località provenzale vicino a Marsiglia, città in cui Guédiguian è nato. L'occasione di questa riunione, però, è la malattia dell'anziano padre, Maurice, costretto in stato catatonico su una sedia a rotelle in seguito ad un ictus.
Armand è l'unico che vive ancora nel paese, poiché gestisce il ristorante Le mange-tout, che si affaccia sul molo; Joseph arriva con Bérangère (Anaïs Demoustier), la giovane compagna che è stata sua studentessa e ha la metà dei suoi anni; Angèle è un'attrice, che manca dalla casa natia da vent'anni, anche perché lì ha perso sua figlia Blanche quando era solo una bambina, a causa di un incidente.
Tra i pochissimi abitanti rimasti in un paese ormai a vocazione turistica, ci sono anche Martin (Jacques Boudet) e Suzanne (Geneviève Mnich), in difficoltà economiche, ma con il loro unico figlio Yvan (Yann Trégouët), medico affermato e molto ambizioso, che gli è molto vicino, e Benjamin (Robinson Stévenin), giovane pescatore sin da bambino innamorato di Angèle dopo averla vista in scena a Marsiglia.
Guédiguian cura le relazioni tra i personaggi come un maestro d'orchestra e in questo, indubbiamente, è aiutato dall'utilizzo dei suoi attori-feticcio: i tre fratelli, infatti, sono interpretati da Ariane Ascaride, che è anche sua moglie, Gérard Meylane e Jean-Pierre Darroussin, da sempre protagonisti di molti suoi film, a partire dall'esordio dietro la mdp con Dernier été (1981). Proprio questo costante ricorso agli stessi attori permette a Guédiguian di montare una sequenza-flashback in cui i tre personaggi de La casa sul mare sono davvero molto più giovani, ai tempi di Ki lo sa? (1985), senza dover ricorrere ad altri interpreti nei loro panni.
L'ambientazione è perfetta per conferire una salda unità di luogo ad un film profondamente fondato sulla scrittura: il piccolo centro provenzale è una quinta teatrale naturale, con poche case disposte lungo l'insenatura del mare, chiuse sul retro dalle montagne e dall'alto cavalcavia ferroviario.
Tra i pochissimi abitanti rimasti in un paese ormai a vocazione turistica, ci sono anche Martin (Jacques Boudet) e Suzanne (Geneviève Mnich), in difficoltà economiche, ma con il loro unico figlio Yvan (Yann Trégouët), medico affermato e molto ambizioso, che gli è molto vicino, e Benjamin (Robinson Stévenin), giovane pescatore sin da bambino innamorato di Angèle dopo averla vista in scena a Marsiglia.
Guédiguian cura le relazioni tra i personaggi come un maestro d'orchestra e in questo, indubbiamente, è aiutato dall'utilizzo dei suoi attori-feticcio: i tre fratelli, infatti, sono interpretati da Ariane Ascaride, che è anche sua moglie, Gérard Meylane e Jean-Pierre Darroussin, da sempre protagonisti di molti suoi film, a partire dall'esordio dietro la mdp con Dernier été (1981). Proprio questo costante ricorso agli stessi attori permette a Guédiguian di montare una sequenza-flashback in cui i tre personaggi de La casa sul mare sono davvero molto più giovani, ai tempi di Ki lo sa? (1985), senza dover ricorrere ad altri interpreti nei loro panni.
L'ambientazione è perfetta per conferire una salda unità di luogo ad un film profondamente fondato sulla scrittura: il piccolo centro provenzale è una quinta teatrale naturale, con poche case disposte lungo l'insenatura del mare, chiuse sul retro dalle montagne e dall'alto cavalcavia ferroviario.
La sceneggiatura è eccellente, tutti i personaggi hanno battute che non si dimenticano e che delineano i loro caratteri, ma soprattutto evidenzia sistematicamente il tema centrale del film: il passare degli anni, il luogo dell'infanzia che cambia e con esso le persone; la lotta destinata alla sconfitta di chi si affanna a tutelarne l'immagine rimasta intatta nei propri ricordi.
Joseph, ad esempio. si lamenta delle moderne strutture di arredamento urbano e si chiede perché non esista "una commissione nazionale dei colori" a tutela dell'identità del paese. È lui la figura più sardonica e cinica del cast: definisce l'ex primo ministro di Israele uno "tosto", aggiungendo che "lui è ebreo", sottolineando davanti ai volti interrogativi degli altri commnsali che la sua non è una frase antisemita, ma un semplice complimento; e spetta ancora a lui a sorprendere tutti con un proverbio cinese, "Sull'orlo del precipizio, una risata ci trattiene dal buttarci", che subito dopo dichiara essere una propria invenzione.
Come spesso capita, però, il cinismo è solo una maschera del romanticismo retrostante, cosicché è ancora Joseph a rivedere nella sua memoria le feste natalizie al paese, in quello spazio così naturalmente presepiale, che con gli addobbi assumeva un fascino ancora più incredibile, tanto più arricchito dal suo ricordo "comunista", nel senso più letterale del termine, quando un solo albero di Natale sulla piazza del molo era l'unico per tutti i bambini che collaboravano a renderlo più ricco.
Anche sul ristorante Joseph è chiaro con Bérangère, simbolo di una nuova generazione che non a caso, insieme a Yvan, pensa agli affari in maniera imprenditoriale, sentendosi rispondere che Le mange-tout, invece, deve rimanere semplice come è sempre stato e non diventare un "acchiapaturisti".
Da che parte stia Guédiguian è evidente e più di una volta sembra davvero di vederlo nei panni dei suoi personaggi, come quando Joseph, all'ironia di Bérangère sugli ideali a suo avviso fuori moda e distanti da quello che lui ora è diventato, risponde che "la classe operaia è ereditaria"; oppure, allo stesso modo, in quelli di Martin che critica il figlio Yvan perché parla "da padrone".
Proprio il rapporto dei genitori del giovane medico con il figlio è uno di quelli che sviluppa ulteriormente il tema centrale del film: la loro ferma rigidità sui ruoli familiari prestabiliti non permette loro nemmeno di prendere in considerazione la possibilità di essere aiutati da Yvan per pagare l'affitto dell'appartamento in cui vivono, improvvisamente raddoppiato con lo sfruttamento turistico della zona.
Anche Angèle, come i fratelli è malinconica, un sentimento che in lei si accompagna ad una profonda insicurezza. La stanza della piccola Blanche, intatta a vent'anni dalla sua morte, la angoscia ancora ed è un'inevitabile fonte di tristezza, ma quando scopre che il padre le ha destinato un percentuale maggiore rispetto ai fratelli, la donna rifiuta completamente l'idea perché non vuole quello che lei reputa una sorta di risarcimento a quanto le è accaduto.
La sua relazione con Benjamin inizia nel peggiore dei modi a causa delle sue rigidità: non riesce ad accettare di essere considerata desiderabile da un ragazzo molto più giovane di lei ("potrei essere tre volte tua madre"), anche se in fondo è lusingata, e ci metterà del tempo prima di lasciarsi andare e di capire che una relazione del genere non può che farle bene.
La Nouvelle Vague è dietro la porta: la leggerezza dell'amore istintivo, romantico e passionale, che il movimento cinematografico francese ha raccontato meglio di ogni altro, è evidente, e non può che aumentare quando Benjamin usa neologismi con il suo "l'amo immemorialmente". Guédiguian, inoltre, sembra citare quel cinema anche dal punto vista formale quando, senza ricorrere a campo e controcampo, riprende da lontano e con la mdp fissa il contrasto tra Joseph e Bérangère che sfuma nella malinconica dolcezza di lui che alterna "mi resta solo la tua bellezza", "non mi lasciare", fino al più negativo "che senso ha questo amore?".
A questa profonda densità di tematiche il regista francese aggiunge anche un filone umanitario e di solidarietà, suggerito dall'ambientazione sul mare e che riguarda l'arrivo di emigranti in fuga da paesi meno fortunati della Francia. E così i fratelli accolgono tre bambini profughi rimasti orfani, che ricordano "là dove moriamo mettiamo radici".
L'immagine dei due bambini più piccoli che si tengono per mano senza separarle nemmeno mentre vengono vestiti dai loro benefattori è indubbiamente la più poetica e commovente dell'intero film ed è per l'ennesima volta Joseph a stemperarla riuscendo a trovare una soluzione, ingegnosa e divertente...
Joseph, ad esempio. si lamenta delle moderne strutture di arredamento urbano e si chiede perché non esista "una commissione nazionale dei colori" a tutela dell'identità del paese. È lui la figura più sardonica e cinica del cast: definisce l'ex primo ministro di Israele uno "tosto", aggiungendo che "lui è ebreo", sottolineando davanti ai volti interrogativi degli altri commnsali che la sua non è una frase antisemita, ma un semplice complimento; e spetta ancora a lui a sorprendere tutti con un proverbio cinese, "Sull'orlo del precipizio, una risata ci trattiene dal buttarci", che subito dopo dichiara essere una propria invenzione.
Come spesso capita, però, il cinismo è solo una maschera del romanticismo retrostante, cosicché è ancora Joseph a rivedere nella sua memoria le feste natalizie al paese, in quello spazio così naturalmente presepiale, che con gli addobbi assumeva un fascino ancora più incredibile, tanto più arricchito dal suo ricordo "comunista", nel senso più letterale del termine, quando un solo albero di Natale sulla piazza del molo era l'unico per tutti i bambini che collaboravano a renderlo più ricco.
Anche sul ristorante Joseph è chiaro con Bérangère, simbolo di una nuova generazione che non a caso, insieme a Yvan, pensa agli affari in maniera imprenditoriale, sentendosi rispondere che Le mange-tout, invece, deve rimanere semplice come è sempre stato e non diventare un "acchiapaturisti".
Da che parte stia Guédiguian è evidente e più di una volta sembra davvero di vederlo nei panni dei suoi personaggi, come quando Joseph, all'ironia di Bérangère sugli ideali a suo avviso fuori moda e distanti da quello che lui ora è diventato, risponde che "la classe operaia è ereditaria"; oppure, allo stesso modo, in quelli di Martin che critica il figlio Yvan perché parla "da padrone".
Proprio il rapporto dei genitori del giovane medico con il figlio è uno di quelli che sviluppa ulteriormente il tema centrale del film: la loro ferma rigidità sui ruoli familiari prestabiliti non permette loro nemmeno di prendere in considerazione la possibilità di essere aiutati da Yvan per pagare l'affitto dell'appartamento in cui vivono, improvvisamente raddoppiato con lo sfruttamento turistico della zona.
Anche Angèle, come i fratelli è malinconica, un sentimento che in lei si accompagna ad una profonda insicurezza. La stanza della piccola Blanche, intatta a vent'anni dalla sua morte, la angoscia ancora ed è un'inevitabile fonte di tristezza, ma quando scopre che il padre le ha destinato un percentuale maggiore rispetto ai fratelli, la donna rifiuta completamente l'idea perché non vuole quello che lei reputa una sorta di risarcimento a quanto le è accaduto.
La sua relazione con Benjamin inizia nel peggiore dei modi a causa delle sue rigidità: non riesce ad accettare di essere considerata desiderabile da un ragazzo molto più giovane di lei ("potrei essere tre volte tua madre"), anche se in fondo è lusingata, e ci metterà del tempo prima di lasciarsi andare e di capire che una relazione del genere non può che farle bene.
La Nouvelle Vague è dietro la porta: la leggerezza dell'amore istintivo, romantico e passionale, che il movimento cinematografico francese ha raccontato meglio di ogni altro, è evidente, e non può che aumentare quando Benjamin usa neologismi con il suo "l'amo immemorialmente". Guédiguian, inoltre, sembra citare quel cinema anche dal punto vista formale quando, senza ricorrere a campo e controcampo, riprende da lontano e con la mdp fissa il contrasto tra Joseph e Bérangère che sfuma nella malinconica dolcezza di lui che alterna "mi resta solo la tua bellezza", "non mi lasciare", fino al più negativo "che senso ha questo amore?".
A questa profonda densità di tematiche il regista francese aggiunge anche un filone umanitario e di solidarietà, suggerito dall'ambientazione sul mare e che riguarda l'arrivo di emigranti in fuga da paesi meno fortunati della Francia. E così i fratelli accolgono tre bambini profughi rimasti orfani, che ricordano "là dove moriamo mettiamo radici".
L'immagine dei due bambini più piccoli che si tengono per mano senza separarle nemmeno mentre vengono vestiti dai loro benefattori è indubbiamente la più poetica e commovente dell'intero film ed è per l'ennesima volta Joseph a stemperarla riuscendo a trovare una soluzione, ingegnosa e divertente...
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