domenica 28 maggio 2017

Orecchie (Aronadio 2016)

Un film che riappacifica col cinema italiano... divertente, ben scritto e ben girato, al quale proprio per questo si perdona anche qualche svisata moralistica di cui avremmo preferito fare a meno. Alessandro Aronadio, quarantunenne palermitano nato a Roma, torna alla regia dopo Due vite per caso (2010), e merita molta attenzione con questa pellicola a basso budget girata in sole tre settimane presentata a Venezia e soprattutto a Montecarlo, dove le risate del presidente onorario del festival, il mostro sacro John Landis, hanno inorgoglito giustamente il suo autore: "Io ancora non ci posso credere. Landis, John Landis, rideva alle mie minchiate".
Orecchie è la storia di una "giornata particolare" vissuta dal protagonista (Daniele Parisi), supplente di storia e filosofia, deluso dal mondo e dalla gente che lo circonda.
Sin dal risveglio, caratterizzato da un fastidioso fischio alle orecchie, capisce che non sarà una giornata come le altre: la sua fidanzata, Alice (Silvia d'Amico, solo omonima del famoso critico teatrale), gli ha lasciato un messaggio sul frigorifero per comunicargli che la sera ci sarà il funerale del suo amico Luigi, ma lui non ricorda nessun Luigi, e due suore suonano alla porta per chiedergli se crede in Dio, e lui, ateo, risponde loro spiegando i paralogismi della religione... 
Questo avvio scoppiettante è solo l'inizio di una serie di incontri al limite del surreale che vedranno alternarsi, interpretati da un ricchissimo cast, medici bislacchi (Andrea Purgatori, Massimo Wertmüller); una madre troppo sorridente e adolescenziale, Rosanna (Pamela Villoresi), che amoreggia col suo nuovo compagno artista di strada molto più giovane di lei, Nikolaj (Ivan Franek), convinto di assemblare emozioni montando i mobili Ikea senza istruzioni; la signora Marinetti (Milena Vukotic) moglie del suo vecchio professore ormai inebetito davanti ai videogiochi; una direttrice di giornale che gli propone una rubrica di filosofia in un mensile che non rinuncia a copertine con donne nude e articoli di gossip (Piera degli Esposti), e tanti altri.

Il ritmo, nonostante i lunghi silenzi comici, resiste per tutta la durata del film, e si ride davvero tanto, anche se spesso lo si fa in maniera amara: nessun personaggio merita la completa stima o l'identificazione dello spettatore. Un allievo del personaggio principale, Filippo, in arte June, è un rapper diventato ricco con dischi dal valore discutibile ma evidentemente di successo, che gli parla dell'intenzione di realizzare un concept album tratto da Lo straniero di Camus (ovviamente pronunciato all'inglese), oltre a sentenziare che "voi siete troppo abituati a pensare, a sviscerare [...] la semplicità è difficile da abbracciare". 
L'impiegata all'accettazione del pronto soccorso (Francesca Antonelli) è una donna maleducata e arrogante che non si stacca dal suo cellulare, sorride mentre chatta e ringhia al paziente che ha bisogno delle sue indicazioni, che si fanno ancora più scortesi perché la distolgono dal telefono. L'otorino interpretato da Andrea Purgatori, con il busto di Mussolini nello studio, rifà il verso allo stesso attore, nel ruolo di Fecchia tra i camerati di Fascisti su Marte (Guzzanti - Skofic 2006), con fare autoritario ricorda al paziente laureato in filosofia "che non serve a niente, questo lo sa?" e invece del consueto "dica trentatré" gli chiede di dire "lei è il migliore" mentre gli ausculta i polmoni. Il gastroenterologo impersonato da Massimo Wertmüller è un dottore a tre mesi dalla pensione stanco del suo lavoro e che riesce ad appassionarsi ad una visita solo facendo un terribile scherzo al suo paziente, in una scena davvero esilarante. La signora Marinetti gli rivela che un tempo lei e il marito lo credevano "un genio", un'affermazione seguita da una lunga pausa che dà il tempo al protagonista di inorgoglirsi e sorridere, due reazioni mortificate subito dopo da un "evidentemente ci sbagliavamo" senza appello.
In questo panorama di umanità desolante, il personaggio più assennato sembra essere il sacerdote Giancarlo (Rocco Papaleo), che prima del funerale lo invita a bere nel bar più vicino e gli parla del suo "lavoro", legato ad una religione improntata sulla paura - "se non esistesse la paura io sarei disoccupato" -, e fondata sulla Bibbia in cui "ci sono parti che, usando un eufemismo, non significano proprio un cazzo!" La sua consapevolezza è disarmante, ma anche molto saggia: si chiede perché le apparizioni della Vergine avvengano sempre in contesti bucolici, a contadini e pastorelle - "deve essere un effetto collaterale della vita all'aria aperta" -, e racconta di aver "regalato una vita migliore" a delle signore di campagna convinte di aver visto la Vergine in quella che era palesemente una macchia di muffa.
Peccato che l'incontro con padre Giancarlo conduca ad una sequenza che fa crollare improvvisamente la tensione accumulata fino a quel momento, rischiando di banalizzare un film per tanti versi validissimo.
Aronadio gira tutto con un bel bianco e nero, dato dall'ottima fotografia di Francesco di Giacomo, con uno schermo in 4/3 che si allarga dolaniamente solo da un certo momento in poi (ma senza un personaggio che lo allarghi come in Mommy) e con la mdp perlopiù fissa che non disdegna inquadrature ricercate, come nella tromba di una scala, in riprese dall'alto e in bei campi lunghi. Il film è completamente girato a Roma, e della città vediamo dettagli da cartolina come Castel Sant'Angelo, le Quattro Fontane, largo Santa Susanna, porta Sant'Anna in Vaticano; angoli più nascosti come la fontanella dell'Acqua Marcia a Borgo Pio e quella dell'Acqua Angelica a piazza delle Vaschette; ma anche zone più popolari, come Tor Pignattara, dov'è l'ospedale Vannini nel cui pronto soccorso si reca il protagonista per risolvere il disturbo alle orecchie del titolo, e Tor Marancia, in cui passeggia tra i palazzi dipinti con i murales.
Davanti alla fontana dell'Acqua Angelica, peraltro, il protagonista vede la madre baciare appassionatamente il suo giovane fidanzato. La scena di una madre sorpresa in strada dal figlio durante un bacio porta istintivamente qualunque cinefilo all'analoga sequenza de I quattrocento colpi (Truffaut 1959), ma qui i toni sono differenti e il nostro Doinel è più che adulto e, invece di schernirsi, prorompe in un "mamma!" esasperato.
L'inevitabile confronto italiano è quello con il primo Nanni Moretti e il suo Michele Apicella. Il mondo sembra avercela con lui, dal ragazzo che lo fissa sull'autobus allo sportello del bancomat che non funziona e rilascia le banconote quando lui è ormai lontano, nonché l'anziano signore che lo guarda in cagnesco e pretende di fumare in ospedale, che ricorda moltissimo l'icona morettiana Remo Remotti. Come Michele è un solitario, un misantropo e la direttrice del giornale lo inquadra rapidamente come "uno di quelli che vive fuori dal suo tempo". 
Di tutto questo si renderà conto nel lungo monologo in chiesa, il cui interno è completamente "impacchettato" come in un'installazione di Christo (per una disinfestazione dagli scarafaggi). Qui proverà a fare un mea culpa tra banalità - "il mondo è l'unico mondo che abbiamo" o "la follia è la nuova normalità" - e buoni propositi atti ad alzare la soglia di tolleranza nei confronti del prossimo, poiché non accettare compromessi e sentirsi sempre migliori e più intelligenti degli altri oltre a non renderci felici, ci rende soli. La teoria, però, sembra essere lontana dalla pratica, poiché quel fastidioso fischio alle orecchie, a cui ormai si è abituato, continua a farsi sentire, soprattutto in mezzo agli altri, segno di un disagio ancora presente...

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