Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs e candidato come miglior film straniero all'Oscar del 2016, forse avrebbe meritato la statuetta, comunque vinta dall'ottimo Il figlio di Saul (Nemes 2015).
Dedicato alla "popolazione di cui non conosceremo mai il canto", El abrazo de la serpiente racconta il viaggio in Amazzonia, in tempi diversi, dell'etnologo tedesco Theodor Koch-Grünberg (Jan Bijvoet) e il biologo statunitense Richard Evans Schultes (Brionne Davis), entrambi alla ricerca della yakruna, una rara pianta che cresce in quella zona, ma per raggiungere la quale necessitano dell'aiuto di una guida del luogo.
La pellicola, liberamente tratta dai diari dei due scienziati, realmente vissuti, narra le loro storie, ambientate nel 1909 e nel 1940, e l'idea, davvero riuscita, è che ad accompagnarli sia lo stesso uomo, Karamakate (Nilbio Torres e Antonio Bolivar), una sorta di sciamano misantropo, rimasto l'unico del suo popolo e che non si fida affatto dei bianchi, che considera soprattutto coloro che hanno devastato la sua terra con lo sfruttamento del caucciù e l'indottrinamento forzoso delle missioni cristiane.
Evans è lì sulle tracce di quanto avvenuto decenni prima e dopo aver studiato il diario del suo predecessore, pubblicato grazie a Manduca (Yauenkü Migue), un autoctono al servizio di Theodor. Karamakate vede nell'arrivo di Evans una seconda possibilità per se stesso, che ormai si sente ridotto ad un chullachaqui, simulacro svuotato di un essere umano, e, non a caso, ripete continuamente all'ospite europeo "tu sei due uomini" ...
Diverse le frasi e gli atteggiamenti di Karamakate che sottolineano la distanza tra la sua mentalità e quella dei due scienziati: non accetta che Manduca faccia da servitore ad un bianco e inizia a sorridere loro solo quando vede con i propri occhi che Theo è amato in uno dei villaggi della zona; di fronte ad un'offerta di denaro risponde, non sapendo cosa farsene, "i soldi piacciono alle formiche"; non capisce il forte legame che i bianchi hanno con gli oggetti; guarda una sua foto scattata da Theo con grande diffidenza... Ma forse la sequenza che meglio sintetizza queste differenza è quella in cui Theo vorrebbe evitare di cedere agli indios la sua bussola perché non perdano la capacità di orientarsi guardando le stelle e seguendo il vento, ma questo pensiero, che vede il progresso come fine della tradizione, viene interpretato da Karamakate come paternalistico e oscurantista, e il suo commento è eloquente: "non gli puoi impedire di imparare, la conoscenza appartiene a tutti, tu non lo puoi capire perché sei solo un bianco".
Oltre ai contrasti, però, alcune esperienze vissute durante il viaggio avvicineranno uomini così lontani: l'incontro con uno schiavo del caucciù che chiede di essere ucciso è un momento difficile e toccante, ma sia Theo che Karamakate sono fermi e impediscono a Manduca di usare il fucile; e poi l'arrivo nella missione di Sant'Antonio da Padova a Vaupés, guidata da frate Gaspar (Luigi Sciamanna), un cappuccino che educa al cristianesimo un gruppo di bambini indios, sottratti alle famiglie schiavizzate nella raccolta del caucciù, ma lo fa usando la frusta e condannando il loro idioma come lingua del diavolo. Anche in questo caso Karamakate e Theo non hanno dubbi da che parte stare...
Guerra struttura il film attraverso un montaggio alternato (montaggio di Etienne Boussac) che gli permette di dare dinamismo alla narrazione delle due vicende, e gira il tutto con uno splendido bianco e nero (fotografia di David Gallego) che interrompe solo per pochi minuti, forse quelli meno riusciti dell'intero film, durante i quali una coloratissima visione, frutto di sostanze allucinogene, sembra venir fuori dagli anni Sessanta, forse strizzando l'occhio a 2001. Odissea nello spazio (Kubrick 1968).
L'ambientazione e alcuni temi del film impongono il confronto con Mission (Joffé 1986), decisamente più oleografico rispetto alla pellicola colombiana, che senza grandi nomi e con una storia meno magniloquente va molto più a segno.
Per quanto riguarda altri possibili rimandi, quindi, meglio rivolgersi altrove. Il rigoroso bianco e nero e la risalita del fiume, il "serpiente" del titolo, fanno pensare più da vicino a Dead man (Jarmusch 1995); quando Evans fa suonare il suo grammofono la citazione di Fitzcarraldo (Herzog 1982) è evidente - anche se qui sentiamo La creazione di Haydn e lì Caruso -, mentre la parte in cui la missione dei cappuccini del 1909 si è trasformata, trent'anni dopo, in una dittatura allucinata di un portoghese autoproclamatosi messia, scimmiottando Gesù ma facendosi adorare come un dio pagano, sembra riprendere quella di Kurtz-Marlon Brando in Apocalypse Now (Coppola 1979) a sua volta ripreso da Cuore di tenebra di Conrad. Qui, però, Ciro Guerra va oltre e concentra in questa sequenza tutti gli eccessi del sincretismo religioso: i bambini di un tempo sono ormai dei discepoli di questo folle dittatore, ma anche in questo caso Karamakate avrà una possibilità di riscatto...
Dedicato alla "popolazione di cui non conosceremo mai il canto", El abrazo de la serpiente racconta il viaggio in Amazzonia, in tempi diversi, dell'etnologo tedesco Theodor Koch-Grünberg (Jan Bijvoet) e il biologo statunitense Richard Evans Schultes (Brionne Davis), entrambi alla ricerca della yakruna, una rara pianta che cresce in quella zona, ma per raggiungere la quale necessitano dell'aiuto di una guida del luogo.
La pellicola, liberamente tratta dai diari dei due scienziati, realmente vissuti, narra le loro storie, ambientate nel 1909 e nel 1940, e l'idea, davvero riuscita, è che ad accompagnarli sia lo stesso uomo, Karamakate (Nilbio Torres e Antonio Bolivar), una sorta di sciamano misantropo, rimasto l'unico del suo popolo e che non si fida affatto dei bianchi, che considera soprattutto coloro che hanno devastato la sua terra con lo sfruttamento del caucciù e l'indottrinamento forzoso delle missioni cristiane.
Evans è lì sulle tracce di quanto avvenuto decenni prima e dopo aver studiato il diario del suo predecessore, pubblicato grazie a Manduca (Yauenkü Migue), un autoctono al servizio di Theodor. Karamakate vede nell'arrivo di Evans una seconda possibilità per se stesso, che ormai si sente ridotto ad un chullachaqui, simulacro svuotato di un essere umano, e, non a caso, ripete continuamente all'ospite europeo "tu sei due uomini" ...
Diverse le frasi e gli atteggiamenti di Karamakate che sottolineano la distanza tra la sua mentalità e quella dei due scienziati: non accetta che Manduca faccia da servitore ad un bianco e inizia a sorridere loro solo quando vede con i propri occhi che Theo è amato in uno dei villaggi della zona; di fronte ad un'offerta di denaro risponde, non sapendo cosa farsene, "i soldi piacciono alle formiche"; non capisce il forte legame che i bianchi hanno con gli oggetti; guarda una sua foto scattata da Theo con grande diffidenza... Ma forse la sequenza che meglio sintetizza queste differenza è quella in cui Theo vorrebbe evitare di cedere agli indios la sua bussola perché non perdano la capacità di orientarsi guardando le stelle e seguendo il vento, ma questo pensiero, che vede il progresso come fine della tradizione, viene interpretato da Karamakate come paternalistico e oscurantista, e il suo commento è eloquente: "non gli puoi impedire di imparare, la conoscenza appartiene a tutti, tu non lo puoi capire perché sei solo un bianco".
Oltre ai contrasti, però, alcune esperienze vissute durante il viaggio avvicineranno uomini così lontani: l'incontro con uno schiavo del caucciù che chiede di essere ucciso è un momento difficile e toccante, ma sia Theo che Karamakate sono fermi e impediscono a Manduca di usare il fucile; e poi l'arrivo nella missione di Sant'Antonio da Padova a Vaupés, guidata da frate Gaspar (Luigi Sciamanna), un cappuccino che educa al cristianesimo un gruppo di bambini indios, sottratti alle famiglie schiavizzate nella raccolta del caucciù, ma lo fa usando la frusta e condannando il loro idioma come lingua del diavolo. Anche in questo caso Karamakate e Theo non hanno dubbi da che parte stare...
Guerra struttura il film attraverso un montaggio alternato (montaggio di Etienne Boussac) che gli permette di dare dinamismo alla narrazione delle due vicende, e gira il tutto con uno splendido bianco e nero (fotografia di David Gallego) che interrompe solo per pochi minuti, forse quelli meno riusciti dell'intero film, durante i quali una coloratissima visione, frutto di sostanze allucinogene, sembra venir fuori dagli anni Sessanta, forse strizzando l'occhio a 2001. Odissea nello spazio (Kubrick 1968).
L'ambientazione e alcuni temi del film impongono il confronto con Mission (Joffé 1986), decisamente più oleografico rispetto alla pellicola colombiana, che senza grandi nomi e con una storia meno magniloquente va molto più a segno.
Per quanto riguarda altri possibili rimandi, quindi, meglio rivolgersi altrove. Il rigoroso bianco e nero e la risalita del fiume, il "serpiente" del titolo, fanno pensare più da vicino a Dead man (Jarmusch 1995); quando Evans fa suonare il suo grammofono la citazione di Fitzcarraldo (Herzog 1982) è evidente - anche se qui sentiamo La creazione di Haydn e lì Caruso -, mentre la parte in cui la missione dei cappuccini del 1909 si è trasformata, trent'anni dopo, in una dittatura allucinata di un portoghese autoproclamatosi messia, scimmiottando Gesù ma facendosi adorare come un dio pagano, sembra riprendere quella di Kurtz-Marlon Brando in Apocalypse Now (Coppola 1979) a sua volta ripreso da Cuore di tenebra di Conrad. Qui, però, Ciro Guerra va oltre e concentra in questa sequenza tutti gli eccessi del sincretismo religioso: i bambini di un tempo sono ormai dei discepoli di questo folle dittatore, ma anche in questo caso Karamakate avrà una possibilità di riscatto...
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