giovedì 4 febbraio 2016

Il ponte delle spie (Spielberg 2015)

Tom Hanks è sull'autobus... alcuni passeggeri lo guardano in maniera torva e con disapprovazione, in un'atmosfera di incolpevole colpevolezza che Alfred Hitchcock ci ha mostrato decine di volte; sullo stesso autobus, tempo dopo, la signora più inviperita della volta precedente, lo guarda con affetto e ammirazione.
In questo confronto elementare e didascalico, privo di suspense e in cui la capacità di usare la mdp è funzionale esclusivamente a veicolare un messaggio rasserenante, c'è buona parte de Il ponte delle spie, ultima pellicola di Steven Spielberg ed ennesima storia moralistico-propagandistica che stavolta, però, non sembra aver fatto breccia nemmeno nell'Academy, che nelle nomination all'Oscar l'ha quasi incredibilmente ignorata.

Una vicenda di spionaggio ben confezionata - anche se non sempre: nella sequenza sul ponte sotto la neve, magnificamente ricreato in studio, le bocche degli attori non emanano vapore - e in cui sono la scenografia e la ricostruzione storica a riservare il maggior fascino per lo spettatore (penso soprattutto agli oggetti come gli orologi a cucù in ambasciata, le biciclette, una vecchia radio Motorola in carcere, le lampadine dei flash fulminate a terra dopo il passaggio di decine di fotografi).
Siamo nel 1957, in piena Guerra Fredda - la locandina originale usa significativamente il volto di Hanks tra le bandiere USA e URSS, trasformandolo in un novello Rocky IV (Stallone 1985) -, e la spia russa Rudolf Abel (Mark Rylance) viene arrestata dall'FBI. La sua difesa d'ufficio è affidata a Jim Donovan (Tom Hanks), già distintosi al processo di Norimberga, ora specializzato in diritto assicurativo. Jim interpreterà il suo incarico con il massimo della solerzia, sorprendendo persino chi lo aveva scelto per quel compito, forse proprio nella speranza che non avrebbe dato troppo peso alla vicenda...
Tom Hanks impersona il protagonista spielberghiano perfettamente: l'uomo senza tridimensionalità per definizione, l'eroe che Hollywood tiene tra i suoi penati. 
James Donovan, infatti, non solo accetta l'incarico ingrato, ma lo fa senza dubbi, senza incertezze: è un avvocato con una profonda vocazione; così integerrimo da essere in grado di dire no alle ingerenze della CIA senza batter ciglio; che non vacilla quando gli è contro l'intero paese e nemmeno quando subisce un attentato che rischia di uccidere i suoi figli.
E così il personaggio migliore della pellicola è di gran lunga la spia russa, interpretata da un bravissimo Mark Rylance, a cui infatti l'Academy ha riconosciuto la nomination tra i migliori attori non protagonisti, che mostra un imperturbabile atteggiamento di fronte a qualunque cosa accada, ben condensato nella risposta alla reiterata domanda del suo avvocato - "Ma lei non si preoccupa?" - a cui controbatte con un costante "Servirebbe?", disarmante quanto il più celebre I would prefer not di Bartleby lo scrivano (Melville 1853).
Anche il montaggio è profondamente didascalico e vedere per buona parte del film l'alternarsi della storia principale con quella di un gruppo di piloti americani, che dovranno volare con gli aerei spia U2 nei cieli russi, dà la netta sensazione che il pubblico di Spielberg abbia bisogno di essere accompagnato per mano all'interno di una trama scontata e prevedibile.
L'americanismo del regista, infatti, si fa ancora più palese quando mette in scena il suo consueto manicheismo, evidenziando il contrasto tra il trattamento liberale riservato ad Abel negli Stati Uniti e a quello profondamente spersonalizzante di Powers in Unione Sovietica. Si pensi in primo luogo alla sequenza del processo sommario subito dal giovane aviere statunitense, solo in un'aula enorme stracolma di russi in divisa che urlano festanti alla sentenza e a quella con Abel difeso da Jim in un clima decisamente più rassicurante. Lo stesso accade, inoltre, con Powers che viene torturato per rivelare preziosi segreti statunitensi, mentre Abel parla col suo avvocato in cella con massima tranquillità senza che nessuno cerchi di strappargli notizie sul suo paese.
I confronti contrastanti e di grana grossa, però, caratterizzano l'intera pellicola e non è certo un caso che all'inizio della vicenda vediamo Jim Donovan, nel suo ruolo di liquidatore assicurativo, fare di tutto per evitare che un incidente con più soggetti di un suo assistito possa comportare diversi risarcimenti come si trattasse di più incidenti, mentre più avanti sarà proprio lui, in tutt'altra situazione, a chiedere ai russi la liberazione di due prigionieri in cambio di uno solo.
E si potrebbe continuare per molto tempo su questa falsariga, fino alla retorica più estrema quando Donovan, che a Berlino ha visto alcuni cittadini dell'est essere uccisi dalle sentinelle del muro mentre provavano a scappare nel settore ovest, si ritrova a guardare con occhi diversi i bambini che giocano scavalcando una recinzione.
Tutto viene spiegato dettagliatamente e, persino quando vediamo costruire il muro, siamo costretti alla didascalia che ci precisa di essere a Berlino, pleonasmi a cui il regista de Lo squalo (1975) ci ha ormai abituato. E pensare che la storia è tratta da una vicenda vera che, però, è così ampiamente stravolta con finalità favolistiche da non sembrarlo affatto. Ancora più incredibile, inoltre, è che dietro la sceneggiatura ci siano i fratelli Coen, la cui capacità di creare toni grotteschi e ironici è davvero imbrigliata e si nota raramente, come nel caso della finta famiglia di Lipsia che viene presentata a Jim come la reale famiglia di Abel, o qualche battuta divertente tra avvocato e cliente.
Venendo invece alle fonti iconografiche di Spielberg, appaiono evidenti i rimandi alle opere di Norman Rockwell, il pittore statunitense del cosiddetto "realismo romantico", e alle sue celebri copertine del "The Sunday Evening Post", realizzate per quasi cinquant'anni, fino al 1963. Una cultura figurativa pop che si allinea perfettamente alla filosofia cinematografica del regista e che viene palesata in alcune inquadrature con i figli di Jim e, soprattutto, nella bella sequenza iniziale in cui Abel dipinge il proprio autoritratto utilizzando lo specchio - il film è così americanocentrico" che il russo dipinge come se fosse statunitense -, in una citazione diretta del Triple self portrait di Rockwell (1960).
Un ultimo accenno ad un paio di citazioni cinefile: quando Donovan è a Berlino ovest, lo vediamo passeggiare davanti ad un cinema multisala (forse possibile, dato che i primi esempi vennero sperimentati in Canada nel 1957), in cui si proiettano, tra gli altri, importanti film quali Spartacus, il celebre peplum girato da Stanley Kubrick (1960), e Uno, due, tre!, la splendida commedia di Billy Wilder con James Cagney (1961).
Un po' d'arte e cinefilia in un film pieno di morale e che indirizza sempre lo spettatore verso direzioni moralizzanti ben precise, decisamente un film alla Spielberg...

Nessun commento:

Posta un commento