lunedì 15 febbraio 2016

Il figlio di Saul (Nemes 2015)

È sempre difficile analizzare un film sulla Shoah, nel rischio di confondere l'importanza del tema con quella della pellicola in sé, e questa cosa accade puntualmente anche per quest'opera con cui, però, il trentottenne ungherese László Nemes ha già vinto il Gran Prix speciale della Giuria a Cannes e il Golden Globe per il miglior film straniero.
Ne Il figlio di Saul lo straniamento e il disagio per lo spettatore iniziano subito, con lo schermo completamente sfocato da cui emerge dopo alcuni minuti il volto del protagonista, Saul - un bravissimo Géza Röhrig, che mostra una disorientante somiglianza con François Truffaut -, membro del sonderkommando in un campo di concentramento, cioè un ebreo assoldato dai nazisti per lavorare al loro servizio, con l'unico vantaggio per sé di procrastinare la propria morte. Vediamo Saul collaborare nella peggiore delle attività del campo: è lui ad accompagnare molti altri ebrei verso le terribili docce da cui non usciranno vivi, rassicurandoli, dopo averli aiutati a spogliarsi, che più tardi recupereranno i loro vestiti...

È straziante la sequenza in cui le porte si chiudono e le vittime iniziano a battere e a grattare chiedendo di essere liberati senza successo, ma proprio qui Nemes mette in atto una delle più belle soluzioni narrative del film, creando una relazione sonora che fa da ellissi con il momento seguente, in cui Saul spazzola il pavimento della sala docce per rimuovere il sangue del massacro appena perpetrato. 
Tutto sembra accadere nella completa indifferenza di Saul, ormai apparentemente privo di emozioni, strappategli via da quella vita che non è più vita ben prima della morte, il cui procrastinarsi è segno di un quasi ingiustificato istinto di sopravvivenza che logora l'uomo e distrugge la sua dignità.
Una sola eccezione in questa lugubre routine è la sua reazione di fronte ad un ragazzo sopravvissuto al gas e soffocato dal medico nazista a cui vengono affidate le sue cure: è lui il ragazzo che dà il titolo al film e il cui seppellimento da questo momento in poi sarà l'unica ragione di vita di Saul, che cercherà senza sosta un rabbino tra i prigionieri...

La pellicola, girata in un 4:3 che lo avvicina ad un filmato d'epoca, quasi documentaristico, è narrata per gran parte della sua durata con un'ossessiva mdp in parasoggettiva, che riprende Saul da dietro le spalle e sulla cui giacca si vede la croce rossa che lo identifica come appartenente al sonderkommando.
La sceneggiatura non precisa in quale momento della guerra sia ambientata la vicenda, ma gli elementi interni alla narrazione ci suggeriscono che la fine sia vicina. I nazisti, infatti, molto presto rinunciano a qualunque "accortezza" e passano all'eliminazione dei prigionieri in maniera più diretta, aumentando il numero di individui mandati a morte nei "trattamenti" o persino uccidendoli a sangue freddo e gettandoli nelle fosse comuni. Diverse le sequenze che restano stampate nella memoria: da quella iniziale già descritta a quella appena citata, in cui la nudità delle persone, il fuoco sullo sfondo e le fosse fanno pensare alla realtà più simile in terra ad un girone dantesco; ma anche le ceneri delle vittime sparse in mare con le pale e la rivolta dei sonderkommando fino alla fuga per i campi limitrofi e la bellissima immagine della foresta, completamente vuota. Resta, inoltre, lo splendido lavoro sul sonoro, in cui urla, spari, vento e anche la pioggia dei titoli di coda continuano a narrare quello che gli occhi non possono più vedere... 

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