mercoledì 11 marzo 2015

Timbuktu (Sissako 2014)

Timbuktu, l'importante città del nord del Mali in cui è ambientata la vicenda, è il titolo di un film durissimo e rigoroso, in cui la follia della jihad e del fondamentalismo religioso viene mostrata in tutta la sua evidenza, mentre la difficoltà delle relazioni umane appare amplificata da una babele linguistica che vede alternarsi francese, arabo, tomasheq (la lingua dei tuareg), inglese.

Le leggi religiose sono solo un pretesto per esercitare il potere sugli altri, e la loro assurdità è direttamente proporzionale all'ottusità di chi si è autoinvestito del diritto di farle rispettare. Così vediamo un uomo costretto a tentare di arrotolarsi i pantaloni per una nuova regola, ma che data la difficoltà preferisce toglierseli e rimanere in mutande; una pescivendola, a cui viene imposto di usare i guanti durante il lavoro, che esplode chiedendo di tagliarle le mani piuttosto; dei musicisti che vengono arrestati e frustati per aver semplicemente suonato e cantato alcune canzoni, e un uomo e una donna colpevoli di adulterio, interrati fino al collo per non poter opporre resistenza alla lapidazione.
In un sistema come questo, però, il palese senso di ingiustizia crea eroi in maniera spontanea (proprio come accadeva duemila anni fa): la donna condannata alla frusta, per esempio, inizia a cantare, forse perché è l'unica arma rimastale per dimostrare il dissenso. Per questo per sopravvivere ed essere liberi bisogna essere considerati pazzi, come la splendida Zabou, una donna stravagante, dalle vesti sgargianti e sempre accompagnata dal suo gallo che porta in spalla, l'equivalente di un pappagallo per un pirata. Solo a lei - una donna che esiste veramente, ballerina del Crazy Horse di Parigi negli anni '60 - viene permesso di camminare a volto scoperto, di danzare, cantare e fumare.
Eppure la religione sarebbe un'altra cosa, come precisa un sacerdote ai guerriglieri jihadisti che entrano in una moschea armati: "Qui dentro chi vuol far religione la fa con la testa, non con le armi".
In questo contesto di continue ingiustizie, a cui la popolazione si è assuefatta, poco lontano da Timbuktu, la famiglia del pastore Kidane, sposato con Satima e padre della piccola Toya, sembra essere felice nella semplicità, fatta del loro affetto, del bestiame da accudire e di una tenda tra le dune in cui suonare e cantare sotto la luce della luna e delle stelle.
In una realtà che non appare così lontana dalle storie bibliche, è strano pensare di essere nel XXI secolo, ma a ricordarlo ci sono non solo i riferimenti alla tecnologia, con l'ossessiva presenza dei cellulari, ma anche una buffa diatriba tra alcuni guerriglieri sulla superiorità calcistica di Zidane o Messi, della nazionale francese o di quella brasiliana. Il calcio, lo sport più globalizzante del pianeta, però, è proibito, o meglio ad essere fuori dalle leggi di dio è l'utilizzo del pallone, motivo per il quale una seria di ragazzi gioca una partita senza averlo, in una delle più belle e poetiche sequenze del film.
L'amore per la tecnologia, da considerare un vero ponte col resto del mondo, sembra determinare anche il motivo per cui la piccola Toya chiami GPS la sua mucca preferita, amata anche dal coetaneo Issan, rimasto orfano poiché, come precisa la saggia bambina, "quelli che fanno la guerra muoiono giovani".
Ed è proprio l'uccisione di questa mucca da parte del pescatore Amadou ad interrompere la pace: Kidane cerca lo scontro con Amadou, e, nonostante il consiglio della moglie di andare disarmato, durante la colluttazione, inavvertitamente, un colpo della sua pistola uccide il pescatore.
Kidane verrà giudicato da un tribunale che chiede alla madre del defunto se vuole pietà per chi ha ucciso il figlio, a conferma di una giustizia che non cerca analisi né obiettività, ma solo punizione. A Satima offre una mano Abdelkerim, uno jihadista che le dà spesso fastidio in assenza del marito. e che quando arriva con un giovane autista suscita in Toya un eloquente "arrivano le persone che non mi piacciono", ma la donna si chiude nel suo orgoglio...
Il film di Abderrahmane Sissako è implacabile e non lascia scampo, come alle sculture africane distrutte dagli spari di alcuni soldati che le prendono come bersaglio (come non pensare alle recenti distruzioni del patrimonio iracheno da parte di Isis), eppure molte delle sue immagini sono liriche: oltre alla splendida partita di calcio senza il pallone che non stentiamo a credere diverrà una scena-simbolo contro la jihad, è indimenticabile anche la sequenza successiva allo scontro tra Kidane e Amadou, strutturata in un campo lungo in cui vediamo l'enorme fiume Niger e le due figurine che nella luce diafana dell'alba lo solcano, il primo va a sinistra fino a raggiungere la riva, mentre il secondo prova a fare lo stesso verso destra, morendo senza riuscire a fare molti metri.
Ma la gazzella che fugge impaurita, immagine che apre e chiude la pellicola, perché in alcuni casi è più impietoso sfinire qualcuno che ucciderlo, è la sintesi più esplicita, pur nel suo simbolismo, di un film che ha meritato la nomination all'Oscar al miglior film straniero.

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