Il film di James Marsh celebra la figura del fisico e cosmologo britannico Stephen Hawking, attraverso l'adattamento della biografia della moglie, Jane, Verso l'infinito (Travelling to Infinity: My Life With Stephen), ma nonostante la grande interpretazione di Eddie Redmayne e la buona prova di Felicity Jones nei panni della compagna di vita, la pellicola non è sostenuta da una sceneggiatura all'altezza, né da una regia che possa affievolire la retorica che la caratterizza per gran parte della sua durata.
Seguiamo le vicende di Stephen dai tempi dell'università, quando la sua vita s'imbatte in tre momenti che la cambieranno per sempre: l'ingresso nel laboratorio di Cambridge in cui Joseph John Thomson scoprì l'elettrone ed Ernest Rutherford riuscì nella scissione dell'atomo; l'incontro con Jane Wilde, che diventerà sua moglie; la malattia.
Marsh delinea in pochissime sequenze la consapevolezza del "genio" Hawking, che dimostra sin da studente di risolvere problemi impossibili per tutti i suoi compagni anche distrattamente e con poco tempo a disposizione. La caduta nel cortile di Cambridge è girata coinvolgendo lo spettatore attraverso una soggettiva sonora, forse unica nota interessante dal punto di vista cinematografico. È questo, evidentemente, il momento che trasforma per sempre la storia di Stephen, che si ritrova in ospedale, dove gli viene diagnosticata la sindrome del motoneurone (meglio nota con il nome di morbo di Lou Gehrig) e un'aspettativa di vita di circa due anni, clamorosamente disattesa (oggi Hawking è ancora vivo, a conferma dell'errata diagnosi di allora).
Nonostante questo Jane deciderà di rimanere al suo fianco, con amore e dedizione, sostenuta anche dalla sua fede cattolica, che contrasta con l'ateismo di Stephen, il quale continuerà ad ottenere successi accademici nel campo della cosmologia, studiando soprattutto i buchi neri.
Spesso è proprio dal punto di vista di Jane che viene raccontata la storia, data l'origine del soggetto, e ne seguiamo le difficoltà nella sua vita privata, con i tre figli, il rapporto con la madre Beryl (Emily Watson), l'avvicinamento al suo insegnante di coro Jonathan (Charlie Cox) e la conseguente maldicenza tra i familiari di Stephen, che iniziano a pensare che il terzogenito Timothy non sia realmente figlio dello scienziato.
Ad un film ordinario e privo di acuti Marsh decide di aggiungere anche un finale a effetto che peggiora la situazione, facendo immaginare a Stephen, che tiene una conferenza attraverso l'ausilio del sintetizzatore vocale sulla sua carrozzella, di alzarsi per raccogliere la penna di una ragazza in prima fila... Una sequenza immaginifica e sensazionalistica che dà il colpo di grazia ad una pellicola che, onestamente, si poggia esclusivamente sull'ottima interpretazione di Redmayne (inevitabile Oscar per lui), ma che è poco più di un film edificante per famiglie.
Stephen tra le braccia della Regina Vittoria |
L'unica connessione con la storia del cinema di La teoria del tutto sembra così essere racchiusa in un paio di citazioni suggerite da Stephen mentre prova per la prima volta il suo sintetizzatore vocale, lo strumento che, con l'avanzare della malattia, gli permetterà di comunicare con gli altri: le prime frasi, infatti, sono "giro girotondo", cadenzato come la voce di Hal 9000 di 2001. Odissea nello spazio (Kubrick 1969) e "francamente me ne infischio", la celebre battuta di Reth Butler-Clark Gable in Via col vento (Fleming 1939). Poco, davvero troppo poco...
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