domenica 6 luglio 2014

Synecdoche - New York (Kaufman 2008)

Il tanto atteso film di Charlie Kaufman, dopo sei anni di Purgatorio, è finalmente uscito nelle sale italiane.
L'attesa era motivata dalla curiosità per l'opera prima di uno sceneggiatore divenuto famoso per aver scritto pellicole come Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee (Jonze 1999 e 2002) o Se mi lasci ti cancello (Gondry 2004).
Ed era inevitabile che la sceneggiatura avesse un ruolo fondamentale: non è un caso che lo stesso titolo del film sia una figura retorica, la sineddoche appunto (ma è anche un gioco di parole con Schenectady, la zona di New York in cui la storia è ambientata). La sostituzione di una parola in luogo di un'altra, infatti, è un escamotage spesso utilizzato durante il film e che più volte farcisce i dialoghi tra i personaggi, che in qualche modo sono essi stessi delle sineddochi, poiché alternano più ruoli che li vedono protagonisti della vicenda principale, ma anche dello spettacolo teatrale palesemente autobiografico messo in scena da Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman).

Leggi il resto della trama:
La moglie di Caden, Adele (Catherine Keener), dimentica la prima di una pièce teatrale del marito, preferendo uscire con un'amica, segno di una crisi coniugale dalla quale i due, peraltro genitori della piccola Olive, stanno tentando di uscire andando da una psicologa, Madeleine Grevis. Qui esternano pensieri inconfessabili, come il sogno di Adele, in cui ha assistito alla morte del marito, che le ha fatto provare solo serenità, poiché è questo l'unico modo per liberarsi di lui senza essere attanagliata dai sensi di colpa e poter così ricominciare una nuova vita.
Caden, in questo stato di cose, si avvicina a due donne: Hazel (Samantha Morton) e Claire (Michelle Williams), mentre Adele si trasferisce con la figlia e con Maria (Jennifer Jason Leigh) a Berlino, dove continuerà la sua carriera di artista con opere miniate, da vedere con la lente d'ingrandimento, in realtà realizzate da Alex Kanevsky (che tanto deve alla pittura di Marlene Dumas, Jenny Saville e Sophie Jodoin).
Il ritratto di Diane Wiest, opera di Alex Kanevsky
Caden raggiunge Hazel a casa, luogo letteralmente in fiamme, delle fiamme che i protagonisti sembrano non vedere (sono forse un messaggio metaforico per noi e non per loro?), e che non saranno ben auguranti per il loro fallimentare primo incontro sessuale. Anche il dialogo tra i due su Il processo, il romanzo di Kafka che Hazel sta leggendo e che trova irresistibile, può essere letto come un'allusione alla storia principale e alla condizione di vita opprimente e asfissiante di Caden.
Andrà meglio con Claire, con la quale riesce a fare sesso, inizia una relazione che li porta al matrimonio e alla nascita di una figlia, Ariel che, però, spesso Caden chiama significativamente Olive. Ma è reale questa seconda vita? O si tratta di una sineddoche della prima?
In questa complicata realtà, Caden si ritrova ad affrontare la morte del padre; a vedere la figlia ormai ventenne spogliarsi in un peep-show; a scritturare per il ruolo basilare del suo nuovo progetto teatrale, totalmente autobiografico, un certo Sammy, che dichiara di averlo seguito per venti anni, di sapere tutto di lui e per questo di poterlo interpretare al meglio. Nella finzione teatrale Hazel è Claire, cosicché il personaggio di Claire ha un altro volto (quello di Emily Watson), mentre lo stesso Caden interpreta Ellen, la donna delle pulizie della nuova casa newyorchese di Adele (già precedentemente interpretata da Diane Wiest).
Nella sempre più profonda discesa in questa dimensione kafkiana, il protagonista, ormai invecchiato, è costretto anche a presentarsi al capezzale di Olive malata, che in una strana scena al'insegna dell'omosessualità dichiara di avere come compagna di vita proprio Maria e accusa il padre di averla abbandonata per poter fare sesso con tale Eric.
La grande opera teatrale di Caden, dopo decenni di lavoro, rimarrà incompiuta.
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Davvero troppo complicato per lo spettatore seguire le vicende del protagonista e i diversi livelli di narrazione, dietro i quali sembra esserci la frase che meglio di ogni altra può identificare l'intero film: "Ci sono quasi tredici milioni di persone nel mondo. Te lo puoi immaginare? E nessuna di quelle persone è una comparsa. Ognuno è protagonista della propria storia. Bisogna dargli quello che gli spetta" (peraltro ennesima sineddoche, che si limita agli abitanti di una parte, quelli di New York, per il tutto, quelli del mondo che invece arrivano a circa otto miliardi!).
Il pessimismo della sceneggiatura di Kaufman è totale: lo dimostra la sfiducia nelle relazioni, sintetizzata da Adele che dice al marito che "Ognuno è deludente quando conosci qualcuno"; nei personalismi e nell'affidarsi a se stessi, poiché "ognuno è ognuno e con l'età si impara che non si è speciali"; ma anche nella produzione artistica, cosicché Caden non riuscirà mai ad essere soddisfatto della sua opera teatrale e solo quando non sarà più possibile dichiarerà di sapere cosa fare per renderla perfetta! 
La dissolvenza finale è la più evidente sineddoche del film.

L'opera prima di Kaufman come regista è pretenziosa: difficile definire diversamente un film metacinematografico che pretende di affrontare il senso della vita (ci perdonino i Monty Python!), i rapporti di coppia, la difficile relazione tra arte e realtà, e che in uno dei massimi momenti di lambiccato intellettualismo, ci fa persino vedere un dirigibile... 
I primi riferimenti che vengono in mente non possono che essere Kubrick, soprattutto quello della crisi della coppia di Eyes wide shut, e Fellini, in assoluto il regista che più di ogni altro ha saputo affrontare il dualismo vita-arte con Otto e mezzo
Non può quindi lasciare indifferenti questo film, che disorienta, sconvolge, rattrista, e, come spesso accade alle opere titaniche, divide il pubblico in giudizi estremi e di segno opposto. Per tutti, però, sarà necessaria almeno una seconda visione per poter dare un giudizio definitivo... 

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