venerdì 11 luglio 2014

Quando la città dorme (Lang 1956)

Ben lontano dai capolavori espressionisti del periodo tedesco, questo film, tratto dal romanzo di Charles Einstein The Bloody Spoor (1953), fu il penultimo girato da Fritz Lang negli Stati Uniti, dove il regista austriaco si era trasferito sin dal 1934.
La pellicola, che insieme a Il grande caldo (1953) e L'alibi era perfetto (1956) costituisce una sorta di trilogia incentrata sul potere dei mezzi di comunicazione, è comunque una commedia in versione noir di buon livello che, trattando di stampa, almeno inizialmente cita, omaggiandolo, il capolavoro dei capolavori sull'argomento, Quarto potere (Welles 1941), film con il quale, in ostentata evidenza, condivide la produzione della RKO.
Il "Citizen Kane" dell'illustre precedente, infatti, si trasforma in un assonante Kyne, proprietario di un'agenzia giornalistica che porta il suo nome e della redazione del quotidiano The Sentinel, entrambi collocati all'interno dello stesso palazzo, in cui lavorano quasi tutti i personaggi del film, contrassegnato da una grande "K", proprio come quella sul cancello dell'ingresso della villa di Xanadu di Charles Forster Kane...

Essendo in fondo anche un noir, meglio evitare di raccontare la trama e limitarsi a poco più del soggetto, incentrato sulle conseguenze della morte del magnate Amos Kyne, che lascia il suo impero al figlio Walter (Vincent Price), totalmente lontano dal mondo del giornalismo e che si ritrova a dover gestire la nomina a direttore generale tra alcuni dei principali collaboratori del padre: Mark Loving (George Sanders), John Day Griffith (Thomas Mitchell) e Harry Kritzer (James Craig).
Quella che diventa una vera e propria sfida, attizzata dallo stesso Kyne, si gioca in gran parte sulla soluzione del cosiddetto caso dell'"assassino del rossetto", quello che oggi sarebbe un serial killer di giovani donne, che dopo aver ucciso una delle sue vittime, lascia sul muro la scritta "chiama la mamma" ("ask mom") usando il rossetto della donna, un dettaglio che rivela i suoi problemi con la figura materna e i suoi disturbi (non vi ricorda qualcuno di nome Norman B...., che solo quattro anni dopo cambierà la storia degli psicotici al cinema?). Ma il protagonista della storia è indubbiamente Edward Mobley (Dana Andrews), il giornalista, scrittore, nonché presentatore televisivo del notiziario Kyne, uomo prediletto del magnate defunto, che da personaggio super partes, poiché non interessato al posto di prestigio per non rinunciare alla sua indipendenza, contribuisce a risolvere il caso che, fatalmente, si incrocia con la sua vita privata, proprio quando ha deciso di fidanzarsi con la segretaria della redazione, Nancy Liggett (Sally Forrest). Oltre a quest'ultima, si inseriscono nella storia altre due donne, opposte per caratteristiche, pur se entrambe assurgono a personificazioni del potere femminile in un mondo dominato dagli uomini: la bionda e più superficiale Dorothy Kyne (Rhonda Fleming), moglie di Walter e amante di Harry, che grazie a questo doppio legame prova a indirizzare secondo i suoi voleri la scelta del nuovo direttore generale; la mora e intelligente Mildred Donner (Ida Lupino), che in maniera molto "maschile" avvicina gli uomini da cui è affascinata, li seduce e ne ottiene i favori, ma mai rinunciando alla propria spiccata personalità.

Il film va a buon diritto inserito tra i classici di Hollywood e, visto oggi, nonostante alcuni momenti di eccessivo didascalismo, in cui i personaggi troppo spesso spiegano quello che sta accadendo, resiste al tempo e lo si apprezza per il bellissimo bianco e nero di Ernest Laszlo e per l'ottima sceneggiatura, che nelle parti brillanti ricorda alcune screwball comedy di Howard Hawks. Non è forse un caso che Dana Andrews interpreti la parte di un uomo sornione e all'occorrenza privo di scrupoli, in cui sembra strizzare l'occhio all'eterno Cary Grant di La signora del venerdì (Hawks 1940), non a caso anch'essa una commedia sul giornalismo. Ma anche il resto del cast è di alto profilo: Ida Lupino è fantastica come attempata e affascinante mangiatrice di uomini; Vincent Price, ancora lontano dal successo dei film di Roger Corman tratti da Edgar
Allan Poe che gli daranno la celebrità, è un perfetto e presuntuoso figlio di papà (in alcune espressioni strafottenti ricorda persino Marlon Brando), pur se la sceneggiatura sviluppa poco il tema della sua gelosia nei confronti di Edward, a cui suo padre ha dedicato più attenzioni che a lui; George Sanders e soprattutto Robert Mitchell hanno l'esperienza dei grandissimi; il giovane John Barrymore jr mostra uno sguardo che rasenta la follia, già visto in Peter Lorre nel capolavoro dello stesso Fritz Lang M. Il mostro di Düsseldorf (1931), ma sorprendentemente somigliante, anche nella fisionomia, al primo Martin Sheen, quello de La rabbia giovane (Malick 1973) per intenderci.
La regia è sostanzialmente di maniera, ma Lang comunque non disdegna di usare la mdp in alcuni momenti topici, con delle carrellate esplicative di grande impatto, sorta di contromovimenti hitchcockiani: laddove il grande Alfred si avvicinava per farci scoprire dei dettagli ignoti a gran parte dei personaggi in modo da aumentare la suspense, l'altrettanto grande Fritz si allontana per regalarci uno sguardo d'insieme.

Mi sembra giusto chiudere con una delle battute indimenticabili del film, forse la più rappresentativa, quella pronunciata da Amos Kyne a Griffith poco prima di morire, che dà la dimensione della consapevolezza che ha rispetto alla forza del 'quarto' potere: "quante donne usano il rossetto negli Stati Uniti?" - chiede a Griffith - "Ebbene, voglio che ognuna di loro provi un brivido di paura. Chiamalo 'l'assassino del rossetto!' e sbattilo in prima pagina!" La frase pur se diversa, infatti, è degna di far coppia, per capacità di sintesi e densità di significato, con la più famosa del celebre precedente wellesiano: "se il titolo è grande, la notizia diventa subito importante!"

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