Asghar Farhādi dimostra ancora una volta di essere un grande autore. Dopo aver vinto due Oscar per il miglior film straniero con Una separazione (2011) e Il cliente (2016) e aver inanellato pellicole come Il passato (2013) e Tutti lo sanno (2018), il regista iraniano con Un eroe vince il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes confermando tutto il suo talento.
Il suo è un cinema sociale, di grande impatto emotivo, capace di farci riflettere sulle diverse facce della verità, stavolta più che mai.
Rahim Soltani, interpretato da uno straordinario Amir Jadidi, è un uomo in difficoltà, in carcere per una brutta storia di fiducia tradita, soldi spariti e debiti contratti. Nei suoi pochi giorni di congedo fa di tutto per sanare la sua situazione e, grazie ad una borsa con del denaro trovata dalla sua compagna Farkhondeh, le cose sembrano migliorare, ma le complicazioni sono dietro l'angolo e convincere tutti è davvero molto difficile (trailer).
Il magniloquente e bellissimo piano sequenza iniziale, che vede Rahim arrivare sul sito archeologico di Naqsh-e Rostam, a circa un'ora da Shiraz, dove invece si svolgerà la vicenda, è l'unico momento di grande respiro visivo del film. Una volta inquadrata la montagna in cui sono scavate le tombe dei sovrani persiani Rahim, per raggiungere il marito della sorella, inizia la lunga salita sulle scale anguste dei ponteggi, metafora del percorso tortuoso che lo aspetta nei giorni seguenti. Da lì in poi, la pellicola è fatta di inquadrature strette, negli appartamenti dei personaggi, spesso ricolmi di persone e di oggetti, nei negozi, nelle sedi di vari enti e nelle vie di Shiraz, tutti altrettanto claustrofobici.
In questo contesto, Rahim si aggira come un leone in gabbia: ottiene la fiducia di tutti, la perde continuamente e di scena in scena la sua condizione si fa sempre più complicata e scivolosa. Una situazione kafkiana e vicina al neorealismo italiano (Rahim e suo figlio fanno istintivamente pensare ad Antonio e Bruno, padre e figlio di Ladri di biciclette), che si fonde con l'alternarsi della fortuna, con il protagonista allo stesso tempo artefice e vittima del proprio destino. Lo spettatore non sa più a cosa credere, cosa sia davvero giusto, chi siano i colpevoli e chi le vittime. Il risultato è una critica all'Iran, non una novità per Farhadi, che diventa una critica universale, in questo caso all'ipocrisia, all'interesse camuffato da altruismo e al potere dei mezzi di comunicazione.
In tal senso una sequenza è più determinante di altre ed è quella che toglie il velo ad una clamorosa ambiguità che si percepisce, guardando il film, sin dall'inizio. Braham (Mohsen Tanabandeh), il fratello dell'ex moglie di Rahim, che ha coperto il debito del cognato senza poi essere risarcito, determinandone così l'inevitabile carcerazione, è sorpreso. Fino ad allora il suo personaggio è rimasto in disparte, mentre sullo schermo abbiamo visto principalmente Rahim e i suoi dannarsi per trovare una soluzione: vendere le monete per sanare parte del debito, rinunciare, restituirle a chi le ha perse, scatenare una reazione a catena che ha coinvolto i dirigenti del carcere, consci del ritorno di immagine che il loro istituto avrebbe avuto pubblicizzando un'azione del genere di un loro detenuto, e di un'associazione che sostiene i carcerati. Rahim, per tutti, e in parte senza volerlo, è diventato l'eroe del titolo.
Braham, però, in questa scena mette i puntini sulle i, pur senza proclami e senza alzare i toni: perché ora Rahim, che giustamente è in carcere, passa per un eroe solo per aver restituito un denaro non suo? Perché non rubare è considerato un gesto così etico, addirittura da premiare con una nota di merito, "in quale parte del mondo si ringrazia qualcuno per non aver commesso un reato?" Perché a quella azione sono interessati televisioni e giornali? Perché, invece, lui, che per aiutare quello che allora era suo cognato, è stato costretto a vendere i gioielli della moglie e il corredo della figlia, passa ora per l'insensibile creditore, che non si accontenta di poco più di un quinto dei 150 milioni di toman a cui avrebbe diritto?
Eppure Rahim sembra in buona fede, considera il suo gesto "niente di che" e inizialmente si imbarazza per tutto quell'interesse attorno a lui. La sua è un'azione apparentemente buona e in fondo dettata dal credo religioso e dalle possibili conseguenze negative, "se avessi preso i soldi un altro, nella vita ne avrei persi molti di più", dice alla tv. Allo stesso tempo, non può non pensare, come dice a Farkhondeh, che "se Dio voleva fare un miracolo invece di diciassette monete ci metteva tutto il mio debito nella borsa".
La strumentalizzazione della bontà è evidente, e anche il figlio balbuziente che invoca pietà per il padre rientra in questa macchina della comunicazione perversa, pronta a fare leva su tutto con ogni mezzo.
Rahim non è certo un eroe, invece, per gli altri detenuti, uno dei quali gli ricorda che grazie a questa storia è stato messo sotto silenzio un suicidio in carcere avvenuto pochi giorni prima. Ma Rahim cos'altro può fare? Il problema è che, una volta dentro ad un turbine del genere, volente o nolente si entra in una spirale da cui non sembra esserci ritorno, poiché ogni gesto rischia di peggiorare le cose, come nelle sabbie mobili.
In questo ondeggiare della verità anche lo spettatore si ritrova coinvolto e alla fine del film si resta a riflettere, evitando di appiattirsi sulle parole del tassista, "niente è giusto in questo mondo", ma continuando ad arrovellarsi per una soluzione che in fondo non c'è, lasciando Rahim su quel crinale tra ingenuità e furbizia, tra fortuna e sfortuna, tra ingannatore e ingannato.
E, per concludere, a proposito di inganni, da notare un bel gioco di musica extradiegetica che improvvisamente diventa diegetica quando Rahim, nelle strade di Shiraz, passa davanti ad un negozio di strumenti musicali... Tutto molto bello dall'inizio alla fine per un film formalmente impeccabile, in grado di tenerci col fiato sospeso e anche oltre, generando un'ansia e un'empatia per i protagonisti davvero insolita. Perfettamente circolare.
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