Una dichiarazione d'amore per il cinema, in forma puramente poetica. One second di Zhang Yimou si pone di diritto al fianco di grandi capolavori metacinematografici del passato.
Il lirismo del soggetto e l'attenzione agli aspetti tecnici all'interno della cabina del proiezionista fanno subito pensare a Nuovo cinema Paradiso (Giuseppe Tornatore, 1988), ma che una delle prime sequenze, ambientata nel corso della notte, sia realizzata attraverso l'utilizzo dell'effetto notte, sembra essere un esplicito omaggio anche ad un altro capolavoro incentrato sul cinema, Effetto Notte di François Truffaut (1973).
1964. In un piccolo paese rurale della Cina ad un passo della Rivoluzione Culturale di Mao, che inizierà due anni dopo, l'unico momento di svago per l'intera comunità è la proiezione serale, che si tiene in un grande edificio malmesso gestito da quello che tutti chiamano il signor Cinema (Fan Wei). In questo contesto avviene il furto di un rullo da parte della giovanissima Liu (Haocun), un'orfana che con la pellicola vorrebbe creare un paralume per il fratellino, inseguita per tutta la regione da un uomo appena fuggito dalla prigione (Zhang Yi).
Quest'ultimo, infatti, teme che la fanciulla abbia rubato il rullo del cinegiornale 22, in cui ha saputo che compare la figlia che non vede da anni, motivo del suo arrivo nel paese. Il cinegiornale, in realtà, è stato trascinato per chilometri da un carretto e il signor Cinema decide di coinvolgere tutti per sistemarlo, in modo da proiettarlo nel corso della serata, prima del film in programma, Heroic Sons and Daughters (Zhaodi Wu 1964).
Una storia semplice, essenziale, persino secondaria rispetto alla poesia che Zhang Yimou utilizza per raccontarla, in un film straordinario per intensità, che emoziona attraverso volti, sguardi, gesti, paesaggi, relazioni umane, notti stellate, solidarietà.
Il furto iniziale è un mcguffin che fa andare avanti la storia, tanto più che non riguarda, come visto, il rullo più importante per il fuggitivo protagonista. Eppure la narrazione del furto e dell'inseguimento conseguente è fondamentale per il film, che lì vive una parte essenziale della sua storia, quella che avvicina e fa conoscere l'uomo in fuga e Liù, nemici inizialmente, che col tempo diventeranno grandi amici. In quella parte della vicenda, Zhang Yimou inserisce anche diversi momenti da commedia, in cui si sorride, tra un inganno e l'altro, tra le bugie dell'uomo e le tante bugie della ragazzina, che risulta fatalmente sempre più credibile a chi incontrano.
Alle nostre latitudini l'ambientazione, la rincorsa tra i due, affamati, sporchi e, all'occorrenza, persino cattivi e violenti, autorizza immediati paralleli con il neorealismo e Liù, a tratti, ricorda Giulietta Masina, soprattutto quella nei panni di Gelsomina ne La strada (1954). Il signor Cinema, invece, per il rispetto che l'intera comunità gli riserva, è una figura centrale per gli abitanti del secondo distretto, al pari del sindaco o del parroco italiani, di Peppone e don Camillo o del maresciallo Carotenuto di Pane amore e fantasia. Il cinema, in quella Cina, è tanto: rappresenta il sogno, i luoghi lontani, l'amore e, anche se quello proiettato è di pura propaganda, l'intera comunità vi si raccoglie intorno in maniera festosa e sacra.
Il recupero della pellicola è una lunga sequenza indimenticabile. "Il signor Cinema sa come fare", dice qualcuno degli astanti, e in effetti è così, perché mettendo tutti a lavoro, quella pellicola viene lavata, stesa, asciugata e arrotolata di nuovo. Il regista ci mostra tutte le operazioni sulla celluloide: dai grandi pentoloni per ottenere acqua distillata, alle donne preferite agli uomini troppo irruenti nel pulire la pellicola; dai ventagli utilizzati per l'asciugatura (una delle persone viene apostrofata ironicamente "dea del vento" perché troppo energica), fino al meccanismo a manovella per riarrotolarla in un'unica bobina.
A restauro terminato, la sala è in tripudio, persone che esultano, altre che fanno le ombre cinesi con le mani, gli oggetti, persino tirando su le proprie biciclette per vederle proiettate sul grande schermo, costituito da un semplice ma enorme lenzuolo tenuto su da tiranti.
Lo spazio è occupato in tutti i modi: il pubblico è seduto sulle panche e sulle sedie, ma anche assiepato in alto, in quella che diventa una sorta di galleria, così come altri spettatori sono seduti su quello che resta delle finestre laterali, che assurgono a palchetti improvvisati, o persino dietro il lenzuolo, dove il film è ovviamente visibile in controparte, tra gli altoparlanti che diffondono il suono in sala.
Gli omaggi al cinema sono ovunque e, se nella prima parte, si omaggiava la slapstick comedy, con i due protagonisti che si ostacolavano e si colpivano a più riprese, usando quello che capitava a tiro (dalla scatola della pellicola ad un osso della carcassa di un animale), più avanti, fuori dal cinema, i bulli scimmiottano i loro omologhi nei film stelle e strisce, sia nelle movenze, ma anche negli attributi, tra cui i cappelli e un immancabile pallone da basket da far rimbalzare nervosamente.
E poi il lavoro del proiezionista: il signor Cinema, oltre alla preparazione iniziale, in cui comunque proiettore e pellicola sono protagonisti, una volta che il pubblico è andato via, fa in modo di riproporre la piccola porzione di cinegiornale in cui si vede la figlia dell'uomo in fuga, con una bellissima operazione di montaggio artigianale. La regia indugia sul taglio della pellicola, poi incollata, sugli strumenti usati, sui dettagli della celluloide nel proiettore e su quello che il signor Cinema spiega essere "un anello", un sistema che gli permette di mandare in loop il secondo che interessa al suo spettatore e che dà il titolo al film. C'è tutto l'amore e la nostalgia per l'aspetto materico della pellicola, come già evidenziato nella fase di recupero del cinegiornale, per un'epoca che coincide con l'adolescenza del regista, classe 1951.
Il cinema è davvero magia che aleggia in tutte le sequenze di One second, cosicché, anche pensare di recuperare un fotogramma sotto la sabbia, anni dopo averlo perso, diventa un gesto poetico, e poco importa se la realtà lo rende inutile. L'importante è aver tentato e sorridere dopo il fallimento.
One second commuove e brilla, come le stelle nella notte di quegli esterni palesemente girati in studio, che riportano ancora una volta al cinema classico.
Non cercate troppo il realismo o la sceneggiatura nel guardarlo, lasciatevi trasportare dal sogno di quella luce che illumina la sala.
grazie infiniteper questa lettura di un film potente, commovente, sincero e... tanto, tanto "cinese"... pur imbevuto di cultura e studio dei maestri europei. E' un piccolo capolavoro. grazie per averlo presentato e recensito così acutamente e con la sensibilità e finezza che merita.
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