domenica 16 gennaio 2022

Sogni d'oro (Moretti 1981)

Un cult nella filmografia di Nanni Moretti, prodotto da Renzo Rossellini e vincitore del Leone d'Argento a Venezia. Il regista romano con Sogni d'oro risponde con grande spirito polemico e sarcastico a tutte le critiche ricevute per i primi due film (Io sono un autarchico, 1976; Ecce Bombo, 1978). Raccontare i giovani in maniera troppo elitaria, personalistica ed egocentrica, con un intellettualismo che in realtà non li rispecchiava.
Sono le critiche di sempre verso i grandi autori, ai quali si chiede di raccontare tutto, da ogni punto di vista, pretendendo un'immediata e onnicomprensiva visione del mondo. Allora, come oggi tocca ad altri (ogni riferimento a Paolo Sorrentino non è affatto casuale), Moretti venne considerato un emulo del Fellini di 8 1/2 e il film venne accolto da un mostro sacro, ma tradizionalista, come Sergio Leone, con un derisorio "Fellini 8 1/2 m'interessa, Moretti 1 1/4 no". Fatalmente, però, narrare è principalmente narrare se stessi, e solo il tempo può dirci quanto un'opera possa delineare un'epoca e farne così un classico (trailer).
Nessuno lo fa per raccontare i propri tempi, "a malapena riesco a rappresentare me stesso", dice in una delle prime battute il regista Michele Apicella (Nanni Moretti usa il suo consueto alter ego con il cognome materno).
Sogni d'oro forse non può assurgere a essere un classico, ma indubbiamente è una commedia acuta, divertente, ma anche amara, malinconica ed esistenzialista. Non si parla della crisi creativa di un cineasta, ma di sofferenza e dolore nei rapporti umani, nella vita quotidiana. Rivisto oggi, inoltre, mostra delle incredibili doti di preveggenza che lo rendono un film profetico.
Il critico (Dario Cantarelli) che raggiunge Michele ovunque, chiedendogli cosa capirebbero "un bracciante lucano, un pastore abruzzese, una casalinga di Treviso" del suo ultimo film, è uno dei tormentoni più famosi della pellicola. Il dibattito, che in Io sono un autarchico veniva evitato con il famoso "no, il dibattito no!", stavolta si ripete continuamente, in una sala minore in cui Michele nota "ma lo schermo è sporco"; in un'aula universitaria; in un cinema di provincia (dove compare una locandina del western Barquero, Douglas 1970, con Lee Van Cleef); in un teatro, in cui Apicella tira fuori da sotto un telone un proletario, un facchino di albergo, scatenando l'approvazione del pubblico; un convento di suore, con le quali il regista si ferma a mangiare in refettorio, affrontando un dialogo sulla crisi della religione tra i giovani. E poi la tv, odiata da Michele, ma necessaria per la promozione: in una scena indimenticabile il giovane regista viene lasciato davanti ad una telecamera a parlare del proprio film, ma dopo poche parole, urla il preoccupato e disperato "aiuto, aiutooo, aiutooooooo!"
Michele Apicella sta lavorando ad un nuovo film, e qui c'è tutto il genio morettiano di quegli anni: sta girando la storia di Sigmund Freud (Remo Remotti) che, anziano, vive ancora con la madre e la figlia Anna (il titolo è La mamma di Freud, di cui vediamo anche la locandina). Michele lavora senza sceneggiatura, facendo improvvisare gli attori, ma con un serio problema: "ai personaggi femminili non so cosa fargli dire". Magnifica la telefonata di Freud a Jung, in cui il primo commenta l'esportazione della psicanalisi negli Stati Uniti con un eloquente "non sanno che gli portiamo la peste", e allo stesso modo memorabile la "vendita democratica di Sigmund Freud al proletariato italiano", con Freud che vende i suoi libri come un imbonitore qualsiasi, con il carretto in una piazza (si tratta di Piazza San Rocco a Frascati), pronto a mettere nell'offerta la carta igienica o la scimmietta soprannominata Jung.
Remotti è strepitoso anche nei panni dell'uomo mai cresciuto, capriccioso e mammone, che fa gli agguati alla madre, la abbraccia e la bacia parlandole con una vocetta infantile; la aspetta per la ninna nanna, ma allo stesso tempo le dice che i rapporti uomo-donna sono difficili, accompagnando il tutto con un autorevole "te lo dice Sigmund Freud", oppure "io sono un poeta, uno scienziato, un medico, io sono un genio... tu sei la madre di un genio! Io ho scoperto l'inconscio" (vedi), in quella costante necessità di approvazione che ogni figlio ha, da cui ottiene l'altrettanto consueto "sei un deficiente".
E a fare da parallelo nella vicenda principale, il rapporto reale di Michele con sua madre (Piera degli Esposti), a cui, in un accesso d'ira e di violenza, urla "non me ne andrò mai da questa casa, non lo voglio superare il complesso di Edipo".
Michele ne ha per tutti: ammonisce l'esercente di un cinema di provincia che punta solo agli incassi, "quando lei fallirà..."; entra nella cabina del proiezionista per criticarne l'operato; a Nicola (Nicola Di Pinto), che vuol fare il suo assistente alla regia, e lo tampina di telefonate, risponde con un secco "e che me 'mporta a me?"; dal produttore (il padre di Nanni, lo storico Luigi Moretti), colpevole di fare film che lui non ama, pretende un'impossibile esclusivismo produttivo. Proprio il regista che si sente sulla sua scia, Gigio Cimino (Gigio Morra), che sta girando un improbabile musical sugli scontri del '68, di cui vediamo persino uno spezzone girato all'EUR, in via Chopin, è uno dei suoi principali bersagli: "io non sono stato il primo, io sono l'unico", gli dice, per prendere le distanze dal suo cinema.
Ed è con lui che si contende la palma del miglior cineasta "per il pubblico dei giovani" in una sfida televisiva, che è un'altra delle sequenze cult del film. In un programma presentato da un giovane Giampiero Mughini, una sorta di Giochi senza frontiere, i due registi devono affrontarsi a suon di parole, con la volgarità che trionfa ("ah stronzo, e famme 'na pippa, anvedi sto burino, ancora parli, ma se 'n t'areggi in piedi, sei alto un cazzo e du' barattoli, co' 'no sputo t'affoghi...", vedi); costretti a parlare della propria idea di vita privata (in cui naturalmente vince il più retrogrado); fronteggiarsi in una gara canora, in cui Michele canta appunto Sogni d'oro e Gigio Piscatore 'e Pusilleco; combattersi in un incontro di boxe ("io ti spacco la faccia, io sono il cinema, io sono il più grande"); e, infine ingaggiare una corsa sul pavimento saponato, vestiti come due ridicoli pinguini.
Si susseguono i motivi tipici di Nanni Moretti e le sue nevrosi. Michele Apicella sceglie gli attori in base alle scarpe che indossano, sdraiato a terra come un marine (e in Bianca la sequenza delle scarpe dal commissario diventerà un cult); gioca a palla in camera e, nel momento di massimo stress, srotola un tappeto, posiziona la porta, palleggia e segna dei gol per rilassarsi; mangia dolci quasi in ogni scena, fino ad illustrare ai suoi assistenti un'intera vetrina di pasticceria che culmina, ovviamente, con la Sacher Torte. Anche l'uso della musica è cifra distintiva dell'autore: canta lui stesso, durante il pranzo con la madre e i suoi assistenti e, dopo aver criticato la donna per quelli che definisce "discorsi da autobus" (espressione entrata nel gergo comune da allora, vedi), accenna Non credere di Mina con "tu non crederle, tu per lei sei un giocattolo, il capriccio di un attimo" (vedi). Più avanti, invece, ascoltiamo Un uomo da bruciare di Renato Zero (vedi), quando Michele insoddisfatto delle riprese smette di lavorare, passa tra gli attori che ballano ed esce di scena mentre Remotti-Freud cala dall'alto come un deux ex machina muovendosi come un violinista: che meraviglia!
Michele insegna a scuola (si tratta del Liceo Luciano Manara di via Villa Pamphilj), come sua madre, è un professore di italiano e mentre, annoiato, spiega Leopardi, allontana i ragazzi più disattenti, da chi prende parola per dire poesie discutibili a chi gioca a scacchi, chiosando con un duro "mi fate veramente schifo". Solo una di loro, non a caso Silvia (Laura Morante), è in grado di metterlo di fronte alle sue fragilità, dichiarandogli tutto il proprio disprezzo per la sua aridità. Il professore si innamorerà di lei, con la quale si lascerà andare a pedinamenti (con un maggiolone blu), a reazioni di gelosia, tarantolato a terra, o di disperazione, quando, in versione ipertricotica da licantropo, urla "sì, sono un mostro, e ti amo". Non si tratta esattamente di sogni d'oro, a ben guardare, ma di incubi.
E poi i giudizi netti sul cinema, attualissimi e condivisibili. Si ritrova in un bar mentre si parla dell'ultimo film di Don Siegel, c'è chi dice che è banale e pieno di luoghi comuni e chi, al contrario, meraviglia della retorica, è geniale perché giocato sulle banalità e i luoghi comuni. Michele non è per le sfumature, né per i compromessi e, allo stesso modo, critica la madre perché ha visto mezz'ora di un film in tv: "ma come mezz'ora? Un film si vede tutto intero, anche se è in televisione". Chissà quel Michele Apicella cosa penserebbe oggi dello strano rapporto col cinema, trasformato spesso in un oggetto seriale sul divano di casa, complice l'immensa diffusione delle serie tv negli ultimi quindici anni.
Nanni Moretti gioca con gli aspetti registici e, così, trasforma una voce over in qualcosa di diegetico: Michele parla all'interno del bar come se fosse il narratore, ma gli altri avventori si fermano ad ascoltarlo.
Tra i vari personaggi (ci sono piccoli ruoli anche per Vincenzo Salemme e per il critico Tatti Sanguinetti), spicca lo sceneggiatore depresso, Gaetano (Alessandro Haber), che in una bella sequenza girata con un carrello all'indietro percorre il corridoio degli uffici di produzione gridando "tutti mi rifiutano", mentre un altro collega al telefono fa ascoltare il rumore della propria sceneggiatura che prende lentamente fuoco.
Tra i momenti epici della pellicola, Michele Apicella che grida a gran voce il suo immarcescibile "pubblico di merda", con il pubblico imbelle che, invece di fischiare, va in visibilio e ripete la frase come fosse un coro da stadio.
E, a proposito di profezie, due su tutte: l'immagine di un esercente cinematografico che per dare l'effetto di riempimento in sala (ben prima dell'invenzione dei multisala) ha scelto di usare manichini su gran parte delle poltrone, cosa che negli ultimi anni abbiamo visto fare negli stadi (con i seggiolini colorati) e in tv in epoca pandemica (proprio con le sagome); ma soprattutto la scena in auto in cui Michele non tollera chi parla di cinema a sproposito e prorompe in un lungo sfogo che si conclude con un liberatorio "non parlo di cose che non conosco" (vedi), che oggi dovrebbe suonare da mantra per molti...

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