domenica 3 gennaio 2021

Playtime (Tati 1967)

Un aeroporto, degli uffici, una fiera, un condominio, un ristorante, un supermercato... tutti decisamente troppo moderni. La città, il progresso, la confusione e il caos che prevalgono su un ordine che sembra essere l'unico obiettivo da perseguire. Basterebbe quest'elenco di parole per capire che si tratta di un film di Jacques Tati e del suo alter ego, monsieur Hulot, sempre in lotta con la tecnologia industriale (trailer).
Uno dei film più costosi di sempre del cinema francese, con una spesa di circa un miliardo e mezzo di vecchi franchi, serviti principalmente allo  lo scenografo Eugène Roman per creare il set di una Parigi ipermoderna, che prese il nome di "Tativille": occupò quindicimila metri quadri a Saint-Maurice, cinquantamila metri cubi di cemento, quattromila metri quadri di plastica, tremiladuecento di armature, milleducento di vetro.Playtime, in italiano tradotto in maniera fin troppo letterale con Tempo di divertimento, nella filmografia del mimo e regista francese viene dopo Mon oncle (1958) e prima di Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971), e tra i due ci sta perfettamente.
Le tecnologiche modernità del primo film, infatti, caratterizzano anche questo lungometraggio che, inoltre, già anticipa l'ossessione per il traffico come elemento imprescindibile della città nella seconda metà del XX secolo, splendidamente immortalato nell'immagine di una rotonda occupata dalle automobili ferme, che improvvisamente riprendono a muoversi a scatti e, complice il colorato pennone centrale, la musica di sottofondo e il parchimetro-gettoniera, diventa per analogia l'immagine di una giostra per bambini. Eh sì, tutti i cittadini di questa Parigi futuribile sono bambini che non sembrano fare altro che giocare o persino pupazzi (automi?) con cui i bambini dovrebbero giocare.
Lo sembrano i viaggiatori che in aeroporto salgono e scendono usando ascensori e scale mobili, premendo miriadi di pulsanti colorati con cui si governa tutto. Lo sembrano gli impiegati di uffici costituiti da box privi di tetto, dove Hulot non riesce a trovare chi cerca, e gli avventori di una fiera di assurde modernità, che agognano una scopa con i fari per spazzare nei punti più bui, degli occhiali dalle lenti basculanti per potersi truccare più facilmente o dei cestini della spazzatura a rocchio di colonna classica.
Non sorprende che in luoghi del genere, dominati da alti e anonimi palazzi, Parigi non si percepisca, se non nei riflessi di un paio di porte a vetri, in cui vediamo la Torre Eiffel e l'Arco di Trionfo. Ed è significativo che una delle locandine in lingua inglese del film recitasse "What has happened to Paris?" (vedi montaggio alla fine della recensione).
Quel senso di spersonalizzazione urbanistica è anche negli appartamenti di un condominio caratterizzati da grandi vetrate che danno sulla strada e che rendono il palazzo un'enorme casa di bambole o una versione comica de La finestra sul cortile (Hitchcock 1954), che tutti i passanti possono fermarsi ad osservare, arredata con poltrone e letti all'avanguardia e televisori incassati nelle pareti.
In questa confusione meccanica fatta di serialità, anche lo stesso Hulot è spesso confuso con altri cittadini che hanno il suo passo, il suo cappello o il suo impermeabile. Ed è una diretta conseguenza di tutto ciò l'ammirazione di una turista statunitense per un semplice chiosco di fiori: peccato che la voglia di immortalarlo con la sua macchina fotografica generi subito una reazione a catena e un ragazzo le chieda di mettersi in posa, insieme all'anziana fioraia, in modo da poter scattare una foto più completa, rendendo fredda anche quell'immagine di naturalezza. 
Il clou del film, però, è certamente la lunga parte ambientata nel ristorante Royal Garden, dove accade di tutto proprio la sera dell'inaugurazione, portando lo spettatore dalla ricercata perfezione iniziale alla distruzione totale. I preparativi vanno a rilento e, all'arrivo dei primi clienti, la comicità è data da lastre del pavimento che restano incollate alle scarpe dei camerieri o dal vano passavivande troppo piccolo per le portate di pesce, con tanto di operaio che misura il piatto con il metro.
L'improvvisazione organizzativa cozza con l'apparenza di locale all'ultimo grido che si vuole approntare. L'inefficienza si impone sulla supposta efficienza: clienti si affastellano; i tavoli prenotati sono terreno di scontro e l'arroganza di un ricco uomo d'affari statunitense (Billy Kearns) gli fa pretendere un tavolo già riservato da altri a suon di dollari; le sedie con lo schienale terminante a punte di corona, in omaggio al nome del ristorante, sono appena verniciate e lasciano il segno sui vestiti dei clienti. Come se non bastasse, salta l'aria condizionata e a poco serve il quadro elettrico perfettamente inserito a scomparsa in un pilastro di marmo, bello ma per nulla funzionale evidentemente.
Non riesce nulla a nessuno in Playtime e, come disse Moravia dopo aver visto il film, "l'individuo, nel mondo di massa, è impotente". L'arrivo di monsieur Hulot in questo contesto non può non peggiorare le cose e, fatalmente, contribuire a demolire "con nonchalance ogni parvenza logica dei meccanismi del mondo moderno", al pari dello Charlot di Tempi moderni (Chaplin 1936), inevitabile modello di riferimento del film di Tati. Al suo tocco, si sbriciola la lastra di vetro della porta d'ingresso (dando vita alla gag del pomello e della porta immaginaria più volte ripetuta) e, cercando di aiutare la moglie del ricco americano, è sempre lui a far crollare parte della decorazione del soffitto. Le travi, però, venendo giù, creano uno spazio separato dal salone principale che si trasforma in un piccolo locale alternativo, molto più libero dalle regole di etichetta che governano l'altro, e nel quale, non a caso, tutti riescono finalmente a divertirsi.
In questo spazio, gli occhiali dell'uomo d'affari statunitense, che Hulot ha rotto alla fiera stringendogli le mani, diventano un vezzo per tutti. Questo è uno dei motivi che tornano nel film: Hulot e non solo danno nuova funzione a diversi oggetti, in una sorta di dadaismo comico. Capita, infatti, allo stesso ricco americano, che trasforma il pannello del passavivande nel cappello di Napoleone, con l'aggiunta di un sottobicchiere anch'esso ripensato come coccarda: il tutto gli permette di scherzare con il cuoco definendolo "l'imperatore della cucina francese". Succede soprattutto a Hulot, che scambia una forchetta di un set per la fonduta con il tornello della cassa in un supermercato, ma anche con il regalo che fa ad una giovane turista americana (Barbara Dennek) prima che riparta: un mazzo di fiori costituito da piccoli lampioni stradali, gli stessi sotto cui sta passando il pullmann che riporterà gli americani all'aeroporto per tornare a casa.
Siamo in un film di Jacques Tati, sono le immagini e gli effetti sonori a parlare, e persino l'urbanizzazione più sfrenata può essere declinata in qualcosa di romantico, così come il traffico può diventare una giostra...





1 commento:

  1. parte della decorazione del soffitto. Le travi, però, venendo giù, creano uno spazio

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