giovedì 28 gennaio 2021

Manifesto (Rosefeldt 2015)

Installazione o film? Il lavoro dell'artista australiano-tedesco Julian Rosefeldt è un'opera da museo d'arte moderna e contemporanea, multischermo, e così è stata ideata, per poi essere trasposta, con le dovute modifiche e i dovuti raccordi, in un lungometraggio da distribuire nelle sale.
Un manifesto, come recita il titolo, che di fatto è manifesto di tredici manifesti artistici scanditi da altrettanti personaggi nei cui panni brilla Cate Blanchett, una delle interpreti più poliedriche e versatili del cinema degli ultimi decenni, spiazzante nel suo perfezionismo, algida nella sua figura, ai limiti del robotico, fatalmente kubrickiana.
E spesso ci si ritrova a pensare a Stanley Kubrick guardando le magnifiche immagini di Manifesto, tra prospettive centrali, monoliti ruotati, appartamenti e famiglie così politically correct da ricordare quelli in cui era cresciuto Alex in Arancia Meccanica.
Proprio in questo contesto, uno dei personaggi della Blanchett è la madre e moglie tradizionalista, religiosa e conservatrice che prega a tavola (il marito è quello della vita reale, Andrew Upton), ma lo fa parlando di arte, con le parole dell'artista pop Claes Oldenburg (I am for an art... 1961). L'eloquio risulta inevitabilmente straniante, data la situazione, ma, dopo alcune scene del film, iniziamo a comprendere l'operazione, perché così succede anche con la Blanchett nei panni di un clochard, di una broker, di un'operaia che incenerisce rifiuti, di un'oratrice ad un funerale, di una scienziata, di una punk che urla alla mdp, di un amministratore delegato, di una presentatrice e di un'inviata del telegiornale, di una coreografa russa, di un'insegnante. 
Il passato da architetto di Rosefeldt si nota quando vediamo la Blanchett-clochard vagare in una città da futuro distopico in cui restano le carcasse degli edifici a segnare il territorio, ma non solo... il film è girato a Berlino e il regista sfrutta diverse realtà utili alla bisogna: dall'ex area industriale di Vattenfall agli ascensori esterni della Ludwig Erhard Haus; dalla centrale termica Klingelberg alla dismessa torre di Teufelberg, fino a una villa con un'enorme vasca digradante verso un laghetto, visibile dalla grande vetrata della casa, una location che sembra perfetta per un film di Paolo Sorrentino.
E così, di scena in scena, la sceneggiatura pesca dai manifesti delle avanguardie, e ascoltiamo le diverse Blanchett citare Futurismo, Dada, Fluxus, Suprematismo e Situazionismo, tra gli altri, sempre in contesti inaspettati: i manifesti stessi utilizzati in maniera dadaista.
I manifesti novecenteschi volevano cambiare il mondo attraverso l'arte, la forza di quelle idee ha caratterizzato intere generazioni, ma hanno resistito al tempo o, come quasi tutto, hanno avuto un senso solo nel loro contesto d'origine, difficile e poco comprensibile nella contemporaneità, ma poi più chiaro una volta lontano da essa? La risposta ad una domanda retorica come questa è scontata e Rosefeldt sembra confermarlo decontestualizzando quei manifesti per l'intera durata del film. Che storia e politica siano alla base di quei testi è il concetto condensato nella sequenza in cui l'attrice australiana è la burattinaia che tiene in mano se stessa in miniatura, attorniata da una miriade di marionette che raccontano la storia del Novecento: si riconoscono Lenin e Stalin, Hitler e Mussolini, Gorbaciov e tanti altri.
Tutto è volutamente artefatto e poco realistico, come conferma il momento in cui la fitta pioggia che si abbatte durante il servizio sull'inviata del tg, alla fine di questo si rivela essere un effetto scenico, con tanto di idrante. La verità svelata, nulla è reale, tutto è sovrastruttura, l'arte in primis... e così, l'ennesimo personaggio, una maestra elementare, spiega ai bambini della sua classe che "nothing is original", nulla è originale, tutto deriva da qualcos'altro, come dare torto a Julian Rosefeldt? Non sempre riusciamo a riconoscere i riferimenti, ma che ci siano in ogni opera non c'è alcun dubbio! 
Il suggerimento della maestra Blanchett ai suoi studenti è godardiano ed è l'unica cosa possibile partendo dalla certezza già enunciata: "non conta da dove prendete l'ispirazione, ma dove la portate" e allo stesso tempo non conta l'opera che si crea quanto il momento.
D'altronde in un film che non è un film, in cui si fondono storia, arte, politica e filosofia, il senso dell'opera in sé sfugge, ma resta il fascino delle immagini, delle parole e il piacere della recitazione di Cate Blanchett, sicuramente quella che più di ogni altro, regista e spettatore compresi, esce vincente da questo lungometraggio.

Nessun commento:

Posta un commento