domenica 27 dicembre 2020

Mank (Fincher 2020)

Quale cinefilo non ha mai sognato di passeggiare per Xanadu, oltre quel cartello "No trespassing" che domina lo schermo in Quarto Potere o di tirare fuori dalle casse tutti gli oggetti che arredavano il maniero per ricollocarli al loro posto nella magnifica sequenza finale che conduce fino alla slitta "Rosebud"?
David Fincher lo ha reso possibile con il suo Mank, in cui racconta la gestazione di uno dei più grandi capolavori di sempre dal punto di vista dello sceneggiatore di origini ebraico-polacche Herman J. Mankiewicz, interpretato da un gigantesco Gary Oldman (trailer). E così, nei saloni di quello che ispirò Xanadu - Candalù nell'edizione italiana di Quarto Potere -, cioè il castello Hearst a San Simeon in California (Welles lo spostò invece in Florida), vediamo diverse sequenze di feste e cene piene di invitati, che mostrano quegli ambienti vivi, all'opposto del film del 1941, in cui rappresentavano l'autoisolamento faraonico di Charles Forster Kane, il personaggio dietro cui si celava la figura di William Randolph Hearst. Ora, invece, vediamo passeggiarci il protagonista, prima all'esterno, tra i giardini e le gabbie con gli animali di ogni specie, insieme all'attrice Marion Davies (Amanda Seyfried), amante di Hearst, e poi nelle sale interne con lo stesso Hearst (Charles Dance). È un sogno che si avvera.

Siamo nel 1940 e Mank, allettato da un incidente, ha novanta giorni, subito ridotti a sessanta, per scrivere la sceneggiatura del film d'esordio del ventiquattrenne Orson Welles (Tom Burke), prodotto dalla RKO, che dà carta bianca al regista affidandogli il totale controllo dell'opera e di tutti i suoi dettagli, un privilegio capitato a pochissimi e che a lui non capiterà più. 
Il "genio della radio" compare poco, incredibile a dirsi dato il personaggio, e solo per dire poche frasi di persona o al telefono, perlopiù finalizzate a chiedere a che punto sia la redazione della sceneggiatura, spesso coadiuvato dal co-produttore John Houseman (Sam Troughton). La scelta è azzeccatissima nell'economia del film, poiché l'attenzione non viene assorbita dalla sua mastodontica figura, e diventa possibile conoscere tutti gli altri aspetti della vicenda, anche grazie ad un ottimo montaggio, di Kirk Baxter, fatto di flashback che rimontano all'inizio degli anni trenta, quelli della Grande Depressione, quando persino Hollywood versava in condizioni di piena crisi economica successive al crollo di Wall Street del 1929.
Fincher gira in uno splendido bianco e nero fatto di luci soffuse nell'ottima fotografia di Erik Messerschmidt, e non disdegna movimenti da cinema classico che aumentano la sensazione di essere in quegli anni, come i diversi dolly, tra cui quello dei titoli di testa - epici, in diagonale e tridimensionali sulle nuvole -, ma anche quello della prima sequenza agli studios della MGM; l'effetto notte sfruttato nella passeggiata di Mank con Marion Davies; i pannelli esplicativi che riproducono il linguaggio tipico di una sceneggiatura, in cui si precisano le specifiche d'ambientazione "interno", "notte", ecc. 
Tra i dettagli che ci riportano nella Hollywood di quegli anni, una riunione presieduta da David O'Selznick, nella quale oltre a Mankiewicz, c'è una squadra di sceneggiatori (si era da poco passati al sonoro), tra i quali Ben Hecht, Charles Lederer (Joseph Cross), peraltro nipote di Marion Davies, George S. Kaufman, Charles MacArthur e anche il fratello minore di Mank, Joseph Mankiewicz, che negli anni successivi avrà un grandissimo successo come sceneggiatore e come regista, dirigendo film celeberrimi come Eva contro Eva (1950), Giulio Cesare (1953), Cleopatra (1963).
La sceneggiatura di Mank risale al 1994 ed è di Jack Fincher, il padre di David scomparso nel 2003, che non riuscì mai a vedere prodotto dalle major uno dei suoi film. L'omaggio al genitore, ovviamente, rimanda anche alla contesa dello script di Quarto Potere, attribuito completamente a Mankiewicz solo nel 1971 da un saggio di Pauline Kael, uscito in due puntate su The New Yorker e significativamente intitolato Raising Kane. Il film segue quella tesi, ma i dubbi restano tanti e nel frattempo la Kael è stata spesso confutata per mancanza di elementi certi in appoggio alla sua teoria. Sta di fatto che l'unico Oscar, delle nove nomination che Quarto Potere ebbe nel 1942, andò proprio alla sceneggiatura, che ebbe altre sei successive versioni, e, come ricorda Fincher, nessuno dei due "autori" fu presente a ritirarlo, motivo per cui Mankiewicz e Welles si beccarono duramente a distanza.
Il personaggio di Mank è delineato con grande cura: ne esce una figura difficilmente incasellabile nel sistema produttivo hollywoodiano, pieno di contraddizioni, con problemi di alcolismo, con pessimi rapporti con il potere, di cui però non può fare a meno per lavorare. D'altro canto viene scelto proprio per le sue grandi capacità sia dalla MGM che da Welles, per il quale lavora nonostante sia sotto contratto proprio con la grande casa di produzione di Louis B. Mayer (Arliss Howard), sostenuta da quel William Randolph Hearst che diverrà la sua ossessione narrativa e che lo apprezza per le sue doti, investendo su letterati come lui per innalzare il livello dei film di Hollywood.
Mank, che dopo l'incidente lavora in una casa di campagna, piccola deroga rispetto alla realtà, in cui invece fu costretto in un letto d'ospedale, è un uomo scorbutico, controcorrente, che ama la moglie Sara (Tuppence Middleton), ma non riesce a fare a meno di chiamarla "la povera Sara" con tutti.
Tante le battute memorabili di Mank: "Se smetti di leggere smetti di apprendere", dice inizialmente commentando l'ingente quantità di libri che si porta dietro per lavorare; prorompe con "se solo avessi avuto più tempo avrei scritto una lettera più breve", citando Pascal, quando gli viene imputato di aver scritto ancora troppo poco; a cena da Hearst si espone in materia politica, "nel socialismo tutti condividono la ricchezza, nel comunismo tutti condividono la povertà"; ripete ironicamente al produttore Irving Thalberg (Ferdinand Kingsley) "lei può convincere tutti che King Kong sia alto dieci piani e che Mary Pickford sia vergine a quarant'anni"; offre un giudizio su Mayer a dir poco tagliente, "se mai dovessi finire sulla sedia elettrica vorrei tanto che lui mi sedesse in grembo". 
Magnifico, infine, il monologo al cospetto di tutti gli invitati di Hearst e Mayer, durante il quale, di fatto, racconta Quarto Potere fondendolo con il Don Chisciotte di Cervantes, paragonando un giornalista che volesse compiere indagini al cavaliere spagnolo, Mayer a Sancho Panza e Marion Davies a Dulcinea. È l'inizio della scena madre dell'intero film, da manuale: Mank arriva ubriaco alla cena in costume a castello Hearst, con tutti i potenti della MGM, e sfoga la sua frustrazione per le elezioni a governatore della California, perse dal progressista Upton Sinclair in favore di Frank Merriam, nel 1934, anche grazie ad un cinegiornale prodotto dalla coppia Mayer-Hearst. La delusione per aver visto passare Hearst dalla fazione democratica a quella repubblicana, influenzando la politica coi suoi giornali (come dice Kane in Quarto Potere "se il titolo è grande la notizia diventa subito importante"), lo addolora e, mentre tutti restano attoniti e qualcuno cerca di fermarlo, il magnate dell'editoria non si scompone e, dopo essersi sentito chiamare "spalaletame" a più riprese, lo accompagna lentamente alla porta, passeggiando per il suo castello, raccontandogli la parabola della scimmia e del suonatore di organetto. Mank, di fatto, crede di essere libero proprio come quella scimmia, ma senza i soldi di Hearst non avrebbe potuto nulla. In fondo è parte di quel sistema che odia ed è qui il suo dramma personale.
Oltre che di Mank e di Hearst, si apprezza anche il lavoro in fase di scrittura sul personaggio di Louis B. Mayer: spietato tycoon del cinema, attore consumato quando deve chiedere la riduzione dello stipendio a tutti i suoi dipendenti in tempo di crisi; servile con Hearst che giganteggia nel suo castello; ma anche volgare imprenditore che riduce a emozioni essenziali il cinema stesso, limitandole a quelle che si provano in tre punti del corpo, che evidenzia indicando e soppesando testa, cuore e pube. E a lui spetta anche la cinica e perfetta sintesi del cinema con una battuta folgorante: "questa è un’attività in cui l’acquirente non ottiene altro coi suoi soldi che un ricordo, quello ciò che compra appartiene ancora a chi gliel'ha venduto. È questa la vera magia del cinema".
Tante, inevitabilmente, le pellicole citate. Nel già citato dolly che si apre sugli studios della MGM, si vedono i manifesti di grandi successi della major, come The Virginian (Fleming 1929), western con Gary Cooper, e Love Among the Millionaires (Tuttle 1930), commedia con Clara Bow; dietro la scrivania di Selznick giganteggia una locandina del romantico La danza della vita (Cromwell-Sutherland 1929), e nello stesso ufficio quella del bellico The Four Feathers (Cooper 1929) e di Tradimento (Milestone 1929), con il volto di Emil Jannings, attore tedesco che lavorò, tra gli altri, con Wiene, Murnau e Lubitsch. Tutto questo, mentre gli sceneggiatori parlano con Selznick dei film horror Paramount e Universal, da Frankenstein (Whale 1931) a L'uomo lupo (anche se a quella data era uscito solo Il segreto del Tibet - Walker 1935, dato che il film di George Waggner è del 1941).
Durante la cena della MGM, infine, al castello Hearst si parla di Maria Antonietta (Van Dyke II, 1938), con giudizi non certo encomiabili sulla protagonista, Norma Shearer.
Un film per cinefili, questo è certo, capace di proiettare lo spettatore nell'età dell'oro di Hollywood e di fargli conoscere, nelle pieghe dei loro comportamenti, personaggi che ne hanno fatto la storia. Bravo Gary Oldman, tornato ai suoi massimi livelli, bravissimo David Fincher!

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