mercoledì 15 luglio 2020

Il petroliere (Anderson 2007)

1898. Daniel Plainview (Daniel Day Lewis) è un cercatore di argento che inizia ad interessarsi al petrolio. Quattro anni dopo è già in grado di aprire il primo pozzo.
Il film si apre con il protagonista in lotta con la natura, tra incidenti e riuscite, e le prime parole della sceneggiatura arrivano dopo quasi un quarto d'ora di cinema puro, di sole immagini in movimento. A quel punto il racconto è al 1911 e Daniel è ormai un imprenditore che tratta con i proprietari terrieri, a cui offre una parte dell'eventuale ricavato, per ottenere il permesso di poter trivellare nei loro possedimenti.
Daniel si muove ovunque con il piccolo H.W., il figlio avuto dalla moglie morta di parto, un dettaglio utile per far presa sugli interlocutori, così come lo è il suo approccio alla religione, basilare per tutti in queste località a bassissima densità di popolazione: "non appartengo a una chiesa particolare, mi piacciono tutte".
Un giorno, però, la sua vita e il suo lavoro hanno un'improvvisa impennata, quando un giovane ragazzo, Paul Sunday (Paul Dano), in rotta con la famiglia, va da lui per proporgli un affare...

Il petroliere, adattamento del romanzo Petrolio! di Upton Sinclair, è un gran film che unisce al mito del sogno americano dell'uomo fattosi da solo, partendo dal nulla, l'analisi chirurgica di come bisogna essere per poterlo realizzare. A questo si aggiunga il motivo della lotta dell'uomo per governare la natura, leitmotiv western, solitamente rappresentato dall'avanzata della ferrovia, il cui ruolo è qui rivestito dai pozzi di petrolio.
Daniel Day Lewis, come sempre, è strepitoso, le sue espressioni, i suoi ghigni, la sua evoluzione dal semplice cercatore di argento allo spietato imprenditore del petrolio è sensazionale. Non c'è niente che può fermarlo, sentimenti e affetti compresi. I suoi discorsi sono quelli del politico consumato: a Little Boston, il luogo segnalatogli da Paul Sunday - estrema propaggine a nord-ovest degli Stati Uniti, poco sopra Seattle, al confine con il Canada -, convince tutti partendo dall'ideale della famiglia e quindi dei figli, promettendo a tutti istruzione e scuole come primo segno del benessere conseguente alla ricchezza derivante dal petrolio, ma senza dimenticare l'acqua, l'irrigazione e la coltivazione, in una terra fino ad allora brulla e buona solo per far pascolare le capre.
Il contrasto di Daniel con Eli (Paul Dano), fratello gemello di Paul, è uno dei motivi portanti della storia. I due rappresentano i principali poteri attorno a cui si raccoglie la comunità: da una parte il sogno della ricchezza e del benessere (politica, economia) e dall'altra la religione. Eli fonda la sua chiesa della Terza Rivelazione e svolge funzioni da predicatore più simili a degli esorcismi che a delle messe cristiane. Una curiosità: una chiesa con questo nome esiste veramente, ma venne fondata nel 1926 nel Vietnam del sud, come risultato di un sincretismo che unisce buddhismo, taoismo, confucianesimo, cristianesimo, islamismo, induismo e spiritualismo.
Daniel comprende l'importanza di avere la religione dalla sua parte e, infatti, intitola la torre del primo giacimento alla Vergine Maria, una scelta che fa indubbiamente colpo sulla popolazione.
Lo scontro tra Eli e Daniel si esplicita in alcuni ottimi passi della sceneggiatura, con il primo che riesce a convincere il petroliere a rimettere i propri peccati in chiesa dove, al grido di "hai portato ricchezze, ma anche le tue cattive abitudini", lo prende a schiaffi per far uscire il demone dal suo corpo prima di battezzarlo. La vendetta per questo trattamento arriverà nella maniera più dura psicologicamente e violenta fisicamente, in un'insospettabile ambientazione: una pista da bowling. Daniel, infatti, riuscirà a far urlare a Eli "io sono un falso profeta, Dio è una superstizione", in una sequenza che ha i toni solenni del Vecchio Testamento, con Daniel che passa dall'assumere davvero il ruolo simbolico del Dio della torah ("io sono la Terza Rivelazione, io sono l'eletto del Signore perché sono più bravo di te, perché sono più abile di te"), per poi trasformarsi in Caino, mentre Eli gli ripete, non a caso, "siamo fratelli, siamo fratelli!"
Daniel è spietato, obliquo, non fa mai niente se non per un tornaconto personale, ed è pronto a cambiare immediatamente atteggiamento nei confronti di chiunque se le condizioni cambiano. E il volto di Daniel Day Lewis è incredibile proprio nell'assecondare questi mutamenti: accade con i rappresentanti della Standard Oil che si permettono di fare una battuta sulla sua vita privata ("non ditemi come gestire la mia famiglia", "vedrete cosa farò"); con Henry, il sedicente fratellastro prima amato e poi odiato; infine, persino con H.W., che una volta diventato adulto e pronto a mettersi in proprio per trivellare in Messico, Daniel tratterà con disprezzo vedendolo come un mero concorrente ("tu sei meno di un bastardo... sei solo un bambolotto di pezza... non c'è niente di me in te, sei solo un bastardo trovato in un cesto").
Tra le migliori linee di sceneggiatura rientra senza dubbio il breve monologo di Daniel sull'invidia che sconfina nella misantropia, in cui spiccano frasi come "io sento la competizione in me, non voglio che gli altri riescano"; "odio la maggior parte della gente... alcune volte guardo le persone e non ci trovo nulla di attraente"; voglio guadagnare così tanto da poter stare lontano da tutti... io vedo il peggio delle persone... la mia barriera di odio si è innalzata negli anni".
Anderson gira da par suo con il continuo uso di carrelli e surcadrage che dal buio delle stanze si aprono sui paesaggi deserti della campagna statunitense... come se fossimo nei western di John Ford.
Tra i carrelli uno su tutti merita una descrizione più puntuale: uno dei pozzi prende improvvisamente fuoco e il piccolo H.W. è lì nei paraggi. Dopo la concitazione della notte, con Daniel che corre a soccorrere il figlio, senza perdere di vista il pozzo, per lui sempre la cosa più importante, all'alba la mdp retrocede dalla nuca del protagonista accovacciato e poi sale leggermente fino ad inquadrare quello spettacolo terribile. Azione, quiete tragica dopo la tempesta, gran movimento di macchina, ottima scenografia e musica ossessiva che accompagna una delle migliori sequenze dell'intero film, con tutti i personaggi che osservano impotenti l'alta colonna di fuoco che distrugge la torre, sorta di dolmen pirico che si staglia nel nulla circostante.
E, in effetti, oltre la regia e l'interpretazione magistrale di Day Lewis (e dello stesso Paul Dano), brillano anche questi altri due elementi ne Il petroliere, affidati a due grandi nomi come Jack Fisk e Jonny Greenwood. Il primo collaboratore per film di grandi registi come Brian De Palma (Il fantasma del palcoscenico, 1974; Carrie, 1976); David Lynch (Eraserhead, 1977; Una storia vera, 1999) e soprattutto storico braccio destro di Terrence Malick in tutti i suoi lavori, a partire da La rabbia giovane (1973) e I giorni del cielo (1978). Il secondo, già chitarrista dei Radiohead, ha ormai una decina di colonne sonore alle spalle, ma ai tempi del film di Anderson aveva iniziato da poco. Proprio col cineasta losangelino, peraltro, in seguito è tornato a lavorare per The Master (2012), Vizio di forma (2014) e Il filo nascosto (2017).
La colonna sonora è davvero notevole (ascolta), in grado di passare da brani di ambientazione e romantici, come Open spaces o Prospectors arrive, a quelli appunto più incalzanti, stile thriller, quali Future markets (in alcuni passaggi degna di Bernard Herrmann), Proven Lands o la stessa title track There will be blood, o dissonanti come Eat Him By His Own Light.
Un film enorme, con un Daniel Day Lewis mastodontico e con tutto il resto che funziona alla perfezione. Indubbiamente tra le migliori pellicole di Paul Thomas Anderson che, ad oggi, su otto film girati, ha all'attivo almeno quattro capolavori. Un'opera che scava nelle origini degli Stati Uniti, senza lesinare sulle sue contraddizioni, fondendo tragedia classica e Bibbia (e il titolo originale There will be blood lo denuncia chiaramente), con vette di solennità e gravità difficilmente raggiungibili. Gli Oscar a Daniel Day Lewis, inevitabile, e quello all'ottima fotografia di Robert Elswit, sono ben poco rispetto a quello che avrebbe meritato. Assolutamente irrinunciabile.

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