mercoledì 14 agosto 2019

Il ritratto negato (Wajda 2016)

Uscito nelle sale italiane tre anni dopo la sua presentazione al Toronto International Film Festival e la morte del suo regista, l'ultimo film di Andrej Wajda è una biografia dell'artista Władysław Strzemiński (1893-1952), nato e formatosi in Russia ma poi, dal 1922, trasferitosi in Polonia con la moglie, la scultrice lettone Katarzyna Kobro.
Difficile comprendere l'assurdo titolo italiano, che ignora completamente l'originale Powidoki, che in polacco sta per "immagini residue", e ne sceglie uno che non ha alcuna connessione con il film, a meno che non si voglia leggere quel 'negato' con l'ostracismo subito dal protagonista durante il regime stalinista. L'edizione inglese, invece, ha risolto la difficoltà con un ottimo "After image", decisamente più fedele...
L'immagine residua, infatti, secondo la teoria della visione di Strzemiński, è la base percettiva dell'opera d'arte, ciò che rimane negli occhi dopo aver osservato un oggetto, che si fissa dietro la palpebra con un colore opposto rispetto a quello che ha nella realtà.
La pellicola racconta gli ultimi anni di vita di Władysław (Bogusław Linda), dal 1948 al 1952, quelli successivi alla Seconda guerra mondiale, in cui l'artista, professore all'Accademia di belle arti a Lodz, viene privato di lavoro, stipendio, dignità, riconoscimenti e persino della tessera di artista, impedendogli quindi anche la possibilità di acquistare colori e altro materiale nei negozi d'arte. 
Strzemiński è stimato e idolatrato da molti studenti, eppure questo, invece di rappresentare un deterrente, è un aggravante per l'avversione nei suoi confronti da parte del regime, che lo ritiene un perturbatore. Privo di una gamba e di un braccio, probabilmente persi nella Prima guerra mondiale, ma su cui non si esprimerà mai con chiarezza, nemmeno l'invalidità mitigherà la vendetta del potere politico contro la sua posizione che prevede l'indipendenza ideologica dell'arte e degli artisti.
Molto bella ed evocativa la prima sequenza in cui Wajda dimostra attraverso le immagini, senza bisogno di alcuna parola, come il cinema classico insegna, la distanza di Strzemiński dal regime sovietico nella Polonia del tempo. L'artista sta dipingendo nel proprio appartamento, quando improvvisamente la stanza perde luce: un enorme telo rosso con il volto di Stalin è stato issato sul palazzo. Strzemiński reagisce subito e senza porsi alcuna domanda, con l'ausilio di una gruccia, apre uno squarcio nel telo per illuminare di nuovo la sua stanza. È l'inizio della fine: dopo pochi minuti due soldati lo raggiungono e lo arrestano per quell'affronto. La vita di Władysław non sarà più la stessa, il suo è un "destino già segnato", come gli intima il funzionario che lo interroga.
Oltre agli allievi, che continueranno a seguirne le idee e a frequentarlo, anche quando, nel 1950, verrà espulso dall'accademia, attorno a lui, da anni separato dalla moglie con cui non ha più alcun rapporto, gravitano solo la figlia Nika (Bronisława Zamachowska) e un amico poeta, Julian Przyboś (Krzysztof Pieczynski). Di fatto Władysław è un uomo solo.
L'arte, che lui concepisce come un "laboratorio di forme", ormai in Polonia, come in tutto il blocco sovietico, è diventata ben altro, un sistema per educare le masse a seguire l'ideologia del realismo socialista. Personaggi come Chagall, Kandinskij e Malevic, con cui Strzemiński ha lavorato, vengono considerati senza mezze misure dei falliti, dei traditori della causa. E non è un caso se alla domanda "da che parte sta?",  Władysław risponde con un laconico "dalla mia".
Strzemiński ha aderito al Neoplasticismo, arte formale per eccellenza, e persino una sala del museo Sztuki di Lodz, la sala neoplastica appunto, contiene diverse sue opere, che verranno puntualmente eliminate quando il suo nome verrà cancellato ovunque. Solo nel suo appartamento resteranno sedie, letto e altri mobili palesemente neoplastici (anche i titoli di testa e di coda hanno forme e colori nepolastici). E sempre lì prenderà forma una delle immagini più belle del film: al di là di Władysław seduto di spalle, la mdp inquadra lo specchio di un armadio che riflette la sua figura, un ritratto perfettamente riuscito... e non certo negato.
La regia di Wajda non è mai banale e, oltre alle sequenze già evidenziate, ci sono altri casi sui cui vale la pena soffermarsi.
Il primo è forse il momento più felice dell'intera narrazione: Władysław è con i suoi allievi ad osservare la natura su una collina e per raggiungere una nuova studentessa, Hania (Zofia Wichłacz), lo fa nel modo più veloce che può, date le sue condizioni fisiche, e rotola a valle, seguito dai ragazzi. Una splendida e gioiosa metafora sulla diversità.
In un altro frangente riesce a condensare la meschinità del regime in pochi secondi. Gli allievi di Strzemiński hanno allestito un'esposizione collettiva con le proprie opere, ne sono orgogliosi e vanno a prendere a casa il loro professore per mostrargliela, ma purtroppo nel frattempo alcuni uomini si introducono nella sede espositiva e distruggono tutto. La mdp viene posizionata a terra, tra quelle "rovine", in attesa dell'arrivo di chi è totalmente inconsapevole di quanto successo: sentiamo i ragazzi vocianti che entrano nella sala con Władysław, quando il loro entusiasmo si interrompe immediatamente e si trasforma in rabbia e tristezza.
D'altronde in una realtà in cui i più alla parola artisti rispondono "qui non siamo al circo", l'arte e il pensiero di Strzemiński non possono che uscirne sconfitti. A conservarli ci penseranno l'amico direttore del museo, che riporrà in deposito le sue opere, un'allieva ebrea, che gli chiede alcuni disegni in modo da portarli in Israele, e il gruppo degli allievi più fedeli che si organizzeranno per battere a macchina i fogli manoscritti con le sue teorie.
Un film che racconta una storia da conoscere, uno dei tanti casi di repressione dei regimi novecenteschi, ma che Wajda trasforma in una poesia formalmente impeccabile.

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