Neanche a dirlo, ennesimo sottotitolo inutile per l'edizione italiana di un film il cui titolo originale era già abbastanza chiaro...
Hereditary, presentato con successo al Sundance Film Festival, è l'esordio alla regia del trentaduenne newyorchese Ari Aster, che racconta la storia di una famiglia statunitense, i Graham che, nella loro grande casa isolata nel verde e lontano da tutto, stanno vivendo un momento molto difficile, dopo la morte di Ellen, l'anziana madre di Annie (Toni Colette), morta dopo una lunga malattia.
Il resto della famiglia, Steve (Gabriel Byrne), il marito di Annie, e i loro due figli, l'adolescente Peter (Alex Wolff) e la piccola Charlie (Milly Shapiro), sembrano non poter fare molto per aiutarla, cosicché Annie si isolerà sempre di più, ma le cose peggioreranno ancora e una sera Peter porterà la sorellina con sé ad una festa...
Annie lavora nel laboratorio allestito in casa in cui costruisce plastici che, per sua stessa ammissione, rappresentano una "pausa dalla realtà". Proprio i modellini vengono usati dal regista come espediente per passare dalla finzione alla scena reale, sorta di case di bambole che diventano palcoscenico in cui si muovono i personaggi grazie al progressivo avvicinamento della mdp.
Annie lavora nel laboratorio allestito in casa in cui costruisce plastici che, per sua stessa ammissione, rappresentano una "pausa dalla realtà". Proprio i modellini vengono usati dal regista come espediente per passare dalla finzione alla scena reale, sorta di case di bambole che diventano palcoscenico in cui si muovono i personaggi grazie al progressivo avvicinamento della mdp.
Sicuramente Aster sa come usare proficuamente lo strumento cinematografico e anche il sonoro è uno degli elementi che funzionano meglio dell'intero film, ma la vicenda narrata presenta davvero troppi cliché, con una sceneggiatura che procede per quella che potrebbe essere definita una continua addizione di sciagure, che scade nel parossismo. La madre di Annie è morta dopo gravi problemi mentali; suo figlio, il fratello di Annie, è morto suicida; Charlie è una bambina complicata e lo dimostra sin dall'inizio del film, quando la vediamo nel cortile della scuola tagliare teste di piccioni.
Annie, in preda ad una crisi senza ritorno, non risparmia nemmeno il primogenito, con cui riproduce il pessimo rapporto che lei stessa ha avuto con la madre - e che ha ribadito il giorno della cerimonia funebre con cui si apre la pellicola -, fatto di scontri e frasi urlate, tra le peggiori che una madre può dire ai propri figli: "io non volevo essere tua madre; non è stata colpa mia, io ho fatto di tutto per evitarlo".
Tutto sembra seguire un inquietante fattore ereditario, una sorta di maledizione (the curse), motivo principe del cinema horror.
Il cinema di genere ha regole rigide e un immaginario codificato, ma Aster esagera: teste mozzate abitate da vermi, visioni di formiche sui corpi, fasi oniriche che amplificano una realtà già abbastanza orrorifica, il fuoco, fino ad un finale che fa perdere credibilità a quanto di buono visto nelle due ore precedenti.
Gli attori però funzionano, Toni Colette è convincente nel ruolo della madre silenziosamente sconvolta da quello che le accade intorno; Gabriel Byrne è perfetto nella parte del marito spaesato e impotente di fronte alle tragedie che si accumulano e che prova ad essere razionale laddove di razionale c'è ben poco; e bravissima è anche la giovanissima Milly Shapiro. Su tutti, però, va segnalata Ann Dowd, nei panni di Joan, la medium che aiuta Annie. La Dowd è ormai l'attrice di cui non si può fare a meno quando si ha bisogno di un profilo liminale, tra la follia e il sadismo, la pura cattiveria e l'esoterismo, come dimostrano soprattutto i suoi ruoli nelle serie tv, come la Patti di Leftovers o la zia Lydia di Handmaid's Tale: è indubbiamente la Kathy Bates di questi anni.
Un film rivedibile, ma con diversi elementi da conservare, a patto che Aster nel futuro trovi uno stile proprio...
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