mercoledì 22 maggio 2019

Scarpette rosse (Powell - Pressburger 1948)

Venti film insieme, per uno dei sodalizi più celebri della storia del cinema, quello tra il regista e produttore Michael Powell e lo scrittore ungherese Emeric Pressburger, che iniziò con Contrabbando (1940) e 49º parallelo (1941) e si chiuse, dopo un'alternanza di periodi più o meno produttivi, con Il ragazzo che diventò giallo (1972).
I due non solo fondarono una casa di produzione, The Archers, ma la dotarono di un vero e proprio manifesto di cinque regole, in cui, tra l'altro dichiaravano fedeltà agli interessi finanziari e avocavano a sé il totale controllo di quanto girato.
Scarpette rosse è uno dei capolavori di Powell e Pressburger che anche in questo frangente si divisero i compiti di regia e sceneggiatura. Il soggetto è liberamente tratto dall'omonima fiaba  che Hans Christian Andersen pubblicò per la prima volta nel 1845. Lì la piccola Karen è una bambina povera che ottiene delle magiche scarpette rosse, che diventeranno la cosa più importante della sua vita e prenderanno il sopravvento su di lei, fino a spingerla a chiedere al boia di mozzarle i piedi per liberarsene...
Il film rivisita profondamente la fiaba, prende spunto dalle scarpette del titolo, ma trasferisce l'ambientazione nel mondo della danza e sposta il tenore della narrazione dall'horror ad un melodramma che instilla riflessioni sul mondo dello spettacolo tutto (trailer).
Non a caso la storia inizia nella galleria del Covent Garden di Londra, dove gli spettatori attendono l'inizio della prima del balletto "Il cuore di fuoco", dividendosi tra chi è lì per la musica del maestro  Palmer (Austin Trevor) - molti sono suoi allievi all'accademia - e chi per la prima ballerina, Boronskaja (Ludmilla Tchérina), evidenziando sin dalle prime battute la continua distanza e competitività tra le diverse competenze e specializzazioni che caratterizzano ogni campo artistico.
L'entusiasmo iniziale si trasforma nella prima delusione in uno degli allievi, Julian Craster (Marius Goring), che si rende conto durante lo spettacolo che il tanto amato professore gli ha sottratto un paio di motivi e li ha inseriti nella propria partitura. Le successive proteste del ragazzo nell'ufficio del potente direttore Boris Lermontov (Anton Walbrook) gli valgono l'ingaggio nella compagnia come collaboratore alle musiche per l'orchestra e una delle numerose e brillanti battute della pellicola, pronunciata dal cinico impresario che retoricamente ribalta l'accaduto: "è molto più avvilente derubare che essere derubati".
Nel frattempo lo stesso Boris, snob e intollerante nei confronti dell'alta società che però costituisce buona parte del suo pubblico, si ritrova ad un ricevimento di una ricca signora e grande mecenate, dove viene invitato per veder ballare la nipote, Victoria Page (Moira Shearer): dall'iniziale gaffe fatta proprio parlando con l'ancora ignota ragazza, "se accetto di venire ad un ricevimento non voglio assistere a un provino", Boris ne apprezza il talento e la bellezza. Anche lei entrerà così a far parte della compagnia. Proprio Julian e Vicky saranno i futuri protagonisti del prossimo progetto di Lermonov, per ora considerato secondario, Scarpette rosse...

Il dramma è in ogni scelta, e i due giovani lo vivono sulla propria pelle: la morale, l'amore e la loro vita sono continuamente messi sotto scacco paradossalmente dalla realizzazione del loro stesso sogno. Il motivo dell'etica calpestata dall'ambizione, che rappresenta uno dei fili conduttori della storia, non solo viene preannunciata dalle due sequenze iniziali già descritte, in cui entrambi i giovani accettano l'incarico di prestigio pur disprezzando Boris, ma anche ironicamente dall'arrivo a teatro di Julian al primo giorno di collaborazione, quando uno degli attrezzisti, alla sua domanda su chi sia il direttore, risponde "ce ne sono almeno cinque o sei che credono di esserlo".
La storia si svilupperà attraverso avvicendamenti, amori, gelosie, bassezze e sotterfugi, in base alle manovre di Boris, vero e proprio demiurgo della compagnia, con le idee chiarissime e senza possibilità di deroga su cosa voglia dire dedicare la propria vita all'arte, come riassume nella reazione alla notizia del matrimonio della Boronskaja, "l'artista che dipende dalle incerte gioie dell'amore non sarà mai una grande artista"; e più avanti, in maniera ancora più dura, quando sarà la volta di Victoria: "sciocchezze da adolescenti [...] sii una fedele massaia con un branco di marmocchi urlanti e abbandona l'arte per sempre!"

Sin dalla prima scena la mdp e il technicolor vengono utilizzati in maniera espressionistica: la prima inquadra dei vertiginosi sottinsù, mentre la scena si illumina di potenti luci azzurre.
Boris, che come visto inizialmente non degna di attenzione Victoria, la va invece ad osservare, nascosto nel pubblico, al Mercury Theatre, dove una delle sue piroette viene ripresa con un'ardita soggettiva rotante.
Anche l'inevitabile innamoramento di Julian e Victoria viene descritto in una bella sequenza, girata completamente in "effetto notte" sulla grande terrazza di un albergo di Montecarlo, che sarà teatro anche del drammatico e spettacolare finale.
Un momento più degli altri, però, assurge a summa dell'intero film: durante la lunga sequenza dedicata alla prima di Scarpette rosse (oltre 15 minuti), una notevole inquadratura dall'alto, tagliata in diagonale, permette di vedere allo spettatore la scena su cui si sta esibendo Victoria, l'orchestra e il pubblico, ma dopo pochi secondi l'intero spazio davanti al palco viene invaso dalle onde del mare, grazie a un fotomontaggio di grande impatto che al tempo stesso è segno delle grandi possibilità espressive del cinema in quel sottile confine tra antirealismo e sospensione dell'incredulità. La settima arte si prende il suo ruolo e varca le soglie del metateatro.
In tal senso l'intero spettacolo è un'esaltazione di fotomontaggi, sostituzioni e technicolor: le scarpe rosse protagoniste hanno il loro peso, chiaramente, ma è tutto un susseguirsi di colori, come le lingue azzurre che rappresentano il vento, nonché della sostituzione del giornale che vola al vento, prende corpo e, grazie al montaggio, diventa un ballerino vestito da vecchio giornale che danza con Victoria Page, per poi tornare ad essere semplice carta.
C'è tanto talento nel film, nella regia di Powell, nel montaggio di Reginald Mills, nella fotografia di Jack Cardiff, nei due premi Oscar per la scenografia (Hein Heckroth e Arthur Lawson) e colonna sonora (Brian Easdale), ma è ancora una volta la scrittura di Pressburger che permette una riflessione sull'autostima dell'artista, chissà, forse da leggere anche in chiave autobiografica da parte dello sceneggiatore ungherese, che mette in bocca all'algido personaggio di Boris, blandito dai complimenti di Livy (Esmond Knight) che gli dà del mago, una risposta meravigliosa: "neanche il più grande mago del mondo può tirare fuori un coniglio dal cappello se il coniglio non è già nel cappello".

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Merita un ultimo accenno una recente evocazione fotografica che ha nuovamente connesso la fiaba di Andersen al cinema: nel 2014 la famosa fotografa Annie Leibovitz ha letteralmente "messo in scena" in alcuni scatti Amy Adams nei panni della Karen-Victoria protagonista e Tim Burton in quelli del ciabattino per la rivista Vogue, in occasione dell'uscita del film Big Eyes (Burton 2014). 



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