martedì 4 giugno 2019

Dolor y gloria (Almodovar 2019)

Un uomo sull'orlo di una crisi di nervi.
Antonio Banderas, nei panni di Salvador Mallo, alter ego di Almodovar, vince una meritatissima Palma d'oro a Cannes, come miglior attore protagonista. Il suo personaggio è un regista che vive di dolori, fisici e dell'animo, e di ricordi, da quelli dell'infanzia a quelli di trentadue anni prima, quando uscì il suo lungometraggio d'esordio, Sabor, inizio di una carriera che oggi sembra essere sul viale del tramonto (trailer).
Salvador incontrerà il protagonista di quel film, Alberto Crespo (Asier Etxeandía), che non vede da allora a causa di un violento litigio, e che ritrova grazie ad un'amica comune, Mercedes (Nora Navas).
L'incontro tra i due attiva lo sviluppo della trama di Dolor y gloria, che porta il protagonista a rivivere tanti momenti della sua vita e a ripensare a due uomini per lui fondamentali: Eduardo (César Vicente), il ragazzo che ha causato i suoi primi turbamenti sessuali quando era ancora un bambino e che gli ispirerà il soggetto de Il primo desiderio, e Federico (Leonardo Sbaraglia), con cui ha avuto la storia più intensa e soddisfacente proprio ai tempi del suo primo film.
I titoli di testa scorrono su uno sfondo di colori in movimento, un'introduzione lisergica che si chiude in una bella ellissi su uno dei dipinti materici della ricca collezione d'arte di Salvador, fornendo una chiave di lettura dell'intero film. Alberto, infatti, ha un'insana passione per l'eroina e, mentre un tempo l'avrebbe rifiutata, ora anche Salvador vuole provarla: gli effetti su di lui non faranno che aumentare i ricordi e con loro i flashback di una pellicola fondata proprio sulla malinconia, acuita dalle note e dalle parole di Come sinfonia (1961) cantata da Mina, che fa da colonna sonora dei momenti maggiormente onirici ed emozionanti.
Salvador è cresciuto con la madre Jacinta (Penelope Cruz), che lo ha allevato superando l'enorme povertà che l'ha costretta a vivere con figlio e marito in una grotta la cui l'unica fonte di luce veniva da un'apertura in alto, al livello del resto del paese (Las Cuevas del Batán di Paterna, vicino Valencia). Nonostante questo, Salvador ha studiato al seminario, si è distinto per le sue doti canore e da grande è diventato un regista cinematografico.
I sacerdoti-professori diedero priorità al suo ruolo di solista nel coro (citazione de La mala educación, 2004) piuttosto che alla sua preparazione, e per questo, come precisa Salvador, "fecero di me un perfetto ignorante". Ha poi recuperato le numerose lacune scolastiche con la propria vita: la geografia viaggiando per la promozione dei suoi i film; l'anatomia, per sua sfortuna, scoprendo i tanti malanni che lo affliggono sin dall'infanzia.
Almodovar sviluppa come un breve documentario questa parte e, soprattutto sul corpo umano, precisa ogni singolo disturbo e dolore evidenziandolo con un colore diverso, mentre lo stesso Salvador ne racconta gli effetti. Proprio il rapporto del protagonista con il dolore, gli permette di enunciare una delle battute più belle della pellicola, che tanto dice sul rapporto di Almodovar e la religione: "quando soffro di molti dolori credo in Dio, il giorno in cui soffro di un solo dolore, sono ateo".
I dipinti di Maruja Mallo e Pérez Villalta inseriti
nella scenografia curata da Antxón Gómez
Dolor y gloria è un film decisamente autobiografico, anche se quest'aggettivo non va preso alla lettera: il regista spagnolo rimanda alla sua vita, utilizza spunti reali, ma poi lascia molto al'immaginazione e alla fantasia. Nel suo "offrirsi" al pubblico, però, l'appartamento di Salvador è di fatto la riproposizione del proprio appartamento di Madrid in zona Parque del Oeste: un grande open space ricco di opere d'arte, in cui compaiono anche quadri che Almodovar non è riuscito a comprare per la sua collezione, come El racimo de uvas dipinto nel 1944 da Maruja Mallo (leggi), cognome che peraltro dà al suo protagonista, o Artista viendo un libro de arte di Guillermo Pérez Villalta (2008); oggetti di design come i piccoli elettrodomestici colorati della Smeg; vasi e vassoi Fornasetti; la poltrona Red and blue di Rietveld; la lampada pipistrello di Gae Aulenti e tanto altro (per un elenco più completo, leggi); ma anche le riproduzioni di Guernica sul frigorifero o quella della Madonna col Bambino di Murillo nella camera da letto della madre morta da qualche anno, nonché il libro di Agustín Gómez Arcos, Ana no (1977), storia di una donna che ha perso marito e due figli durante la Guerra civile spagnola, e che viaggia per incontrare  il terzo, in galera perché antifranchista (leggi).
Il film racconta la grande solitudine del protagonista, che spesso sconfina in depressione, ma non mancano alcuni momenti esilaranti, come la divertente intervista che il regista concede via cellulare, dopo la proiezione di Sabor ad una rassegna, dove non si presenta poiché attanagliato dall'ansia di dove incontrare dal vivo i fan della pellicola, o le indicazioni dettagliate, narrate in flashback, che Jacinta ormai anziana (Julieta Serrano) dà al figlio.
E poi, ça va sans dire, la cinefilia che caratterizza la vita di Salvador sin dall'infanzia. Pur se spinto verso il canto dal sacerdote che insegna musica, infatti, in una delle sequenze lo vediamo insieme alla madre, mentre sfoglia un album di figurine dedicato agli attori di Hollywood e chiede a Jacinta, che nel frattempo sta rammendando calzini, se Liz Taylor e Robert Taylor siano parenti, per poi farle una di quelle domande di cui sono capaci solo i bambini: "secondo te la Taylor glieli rammenda i calzini a Robert Taylor?"
Tornando ai dettagli dell'appartamento di Salvador, su un tavolino basso del salotto, la mdp inquadra di taglio il dvd di Mamma Roma (Pasolini 1962), un particolare che arriva quando più volte il personaggio di Jacinta ci ha già fatto pensare ad Anna Magnani nel capolavoro pasoliniano: una popolana che cresce il figlio con un papà praticamente assente, si fa in quattro per dargli tutte le possibilità di un futuro migliore e che, quando Salvador si lamenta di dover andare a studiare in seminario perché non vuole diventare un prete, esplode urlandogli che quello è l'unico modo per chi è povero di riuscire a studiare. Alla stessa mamma, diventata anziana, Salvador porta un bicchiere di latte lucente... come non pensare al celeberrimo omologo de Il sospetto (Hitchcock 1941)?
E poi c'è La addiction ("La dipendenza"), l'autobiografia nell'autobiografia, il racconto che Salvador tiene sul desktop del computer, che Alberto legge e trova sensazionale come soggetto per un monologo teatrale. Proprio Alberto, a cui Salvador ricorda che "il miglior attore non è chi piange ma chi combatte per trattenere le lacrime", metterà in scena questo flusso di coscienza basato sui primi ricordi dell'autore sul cinema, quando i film nel suo paese venivano proiettati su una grande parete bianca all'aperto, ai lati della quale i bambini andavano a fare pipì. Proprio l'olfatto, che nei ricordi ha un potere evocativo enorme, è alla base di un'altra magnifica linea di sceneggiatura: "il cinema della mia infanzia sa sempre di pipì, di gelsomino e di brezza d'estate".
Tutto è cinema e, nel racconto che diventa pièce, il protagonista rivela "il cinema mi salvò", così come guardando i film da piccolo Salvador sperava che non accadesse nulla alle attrici, pur costretto ad ammettere che "non ci riuscii né con Nathalie Wood, né con Marylin". D'altronde, come dirà a Federico, "l'amore non basta a salvare le persone che ami", tantomeno quelle di celluloide...
Ancora più cocente, però, è la delusione inflitta alla madre, che poco prima di morire gli dice "non sei stato un buon figlio", frase a cui ogni figlio non può che rispondere come risponde Salvador, "ti ho deluso solo perché sono come sono".
Un gran melodramma in pieno stile Almodovar, tra autofiction, sessualità, cinema e tanta malinconia, che raggiunge il punto più alto in un finale in cui caso e sorte si uniscono, con un messaggio che Salvador si ritrova a leggere oltre 50 anni dopo di quando era stato pensato per lui...

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