domenica 14 aprile 2019

Noi (Peele 2018)

Wes Craven è morto, viva Wes Craven!
Complimenti a Jordan Peele, perché ridare agli appassionati di horror le emozioni che era in grado di dare loro il maestro di Nightmare e Scream è qualcosa di indescrivibile.
In Noi c'è grande ironia, c'è tensione e c'è filosofia, questa forse più apparentabile al cinema di John Carpenter, altro basilare punto di riferimento del cinema horror degli ultimi quarant'anni.
Il "mondo di sotto", appena accennato, pur se in forma differente, in Get Out (2017), diventa in Noi qualcosa di molto più articolato, una realtà parallela a quella umana, della quale rappresenta una versione negativa, sorta di anti-iperuranio platonico.
Ad abitarlo le nostre ombre, esseri di carne, ossa e sangue, da sempre costrette ad esistere subendo il volere degli altri, come semplici corrispettivi delle nostre vite, di fatto, parafrasando lo stesso Platone, "ombre delle ombre".
È indubbiamente questa la grande invenzione del soggetto di questo secondo e bellissimo film scritto e diretto dal talentuoso Jordan Peele, classe 1979, un particolare che conta.
La vicenda è un meccanismo a orologeria, i cui elementi, durante la visione o persino dopo per lo spettatore che inevitabilmente continuerà a pensare ai tanti dettagli, assumono un preciso posto e significato. Tutto va al proprio posto alla fine, anche ciò che non sembrava avere alcuna connessione con quanto narrato.
Questo vale sin dalla premessa, ambientata a Santa Cruz nel 1986: negli scaffali di una libreria spiccano l'indimenticato cubo di Rubik e una serie di scatole degli allora diffusissimi giochi da tavolo, mentre la tv sta mandando in onda spot pubblicitari, tra cui quello della manifestazione umanitaria del 25 maggio di quell'anno, Hands Across America.
È una casa di vacanza, dove vivono temporaneamente, per un soggiorno estivo al mare, una giovane famiglia di afroamericani costituita dai due genitori e la piccola Adelaide che, approfittando della scarsa attenzione del padre, si allontana da tutti per un quarto d'ora, dopo il quale tornerà molto cambiata, persino non più in grado di parlare.
Anni dopo, Addy (Lupita Nyong'o) è cresciuta ed è sposata con Gabriel, ora è lei ad essere madre di due ragazzi, Zora (Shahadi Wright Joseph) e Jason (Evan Alex), e sono tutti nella stessa casa di famiglia. Tra ricordi, confidenze con amici e ansie per i figli, il primo giorno di vacanza sembra scorrere tranquillo, ma naturalmente non sarà così...

Il cubo di Rubik e i giochi da tavolo iniziali sono solo i primi dei tanti oggetti e luoghi significanti presenti nella pellicola. Lungo la sua durata, infatti, ci sono mele rosse (Biancaneve), il luna park con la casa degli orrori in cui entra la piccola Addy, che si chiama Merlin's House (come nella celebre saga di videogiochi Kingdom Hearts) e su cui campeggia la scritta "find yourself", altro evidente riferimento alla filosofia classica e al celebre γνῶθι σαυτόν ("conosci te stesso"); ci sono magliette pop iconiche degli anni '80, come quella di Thriller di Michael Jackson, che indossa Addy da bambina, quella de Lo Squalo (Jaws), che vent'anni dopo ha il figlio di Addy, Jason. E non basterà, poiché un'altra maglietta, raffigurante la catena umana della già citata Hands Across America, avrà un ruolo importante all'interno della trama. Un'ulteriore notazione: Russell vince la T-shirt per la figlia Addy giocando a Whac-A-Mole (noto anche come Whac 'em all), il mitico gioco da luna park in cui si colpivano le talpe... l'animale sotterraneo per antonomasia.
C'è spazio anche per un un versetto della Bibbia, altro topos di genere (si pensi, però, fuori dal genere, l'ironico riferimento a questo utilizzo che ne fa Tarantino in Pulp Fiction con l'ormai celebre Ezechiele 25:17, tormentone di Samuel Jackson nel film). In Noi a ripetersi è Geremia 11:11 che, per evitare che lo cerchiate in sala, è un passo in cui il Dio della Torah è particolarmente duro con l'umanità: "Perciò, così parla l’Eterno: Ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò". Anche la radiosveglia, rimasta in casa da tanti anni, viene inquadrata quando segna le 11:11!
La struttura della narrazione vive nel basilare dualismo tra il presente e il passato, alternato attraverso un montaggio perfetto che unisce alla storia attuale i flashback degli anni '80.
L'ironia non manca mai, come del resto accadeva già in Get Out. Qui è in buona parte condensata nel personaggio di Gabriel, uomo semplice ai limiti dell'ottusità: invidioso dell'auto del vicino fino a pensare che l'abbia comprata per fargli dispetto, guarda gli highlights dei Giants in tv; si esalta per il motoscafo riparato; fa domande a sproposito anche nei momenti più drammatici.
Non meno divertente la sequenza in casa dei vicini, Josh e Kitty (Tim Heidecker e Elisabeth Moss) utilizzano l'assistente vocale "Ophelia" che però, invece di chiamare la polizia come le è stato richiesto, fa partire Fuck the police degli N.W.A. (1988), in una gag che avrebbe davvero fatto invidia agli Scream craveniani, tanto più che uno degli assassini quando la vittima allunga un braccio da terra per chiedere un aiuto finge di darle la mano per poi passarsela tra i capelli.
Lupita Nyong'o è indubbiamente la star della pellicola ed è magnifica in entrambi i personaggi, ma nonostante il piccolo ruolo anche Elisabeth Moss brilla: la doppia identità permette a tutti gli attori di alternare espressioni opposte, e nel suo caso il risultato è notevole, inoltre la veste rossa, dopo Handmaid's tale, le calza a pennello!
Anche la scelta delle armi "casalinghe" con cui si difendono i personaggi è hitchcockianamente divertente: si è detto del fallimentare tentativo di utilizzare i moderni accessori domestici come l'assistente vocale, restano mazze da baseball, da golf, attizzatoi e persino grossi minerali che fanno da soprammobili i più utili alla bisogna. Su tutte, però, la citazione cinematografica di Gabriel, che trova il tempo di ricordare le Micro Machines come trappole in Mamma ho perso l'aereo (1990), ennesima invenzione commerciale degli anni '80, che infatti il piccolo Jason non conosce affatto.
Peele, oltre a divertirsi con i giochi e gli oggetti della sua infanzia, gira benissimo e sono tante le inquadrature, i movimenti di macchina e le trovate registiche che lo attestano, a partire dalla bella immagine di Addy con alle spalle le montagne russe del luna park.
Su tutti ancora "il mondo di sotto", in cui protagonisti e comparse hanno il loro doppio - motivo cinematografico per eccellenza - e che il regista sviluppa con grande inventiva e capacità: tutti ripetono le stesse azioni dei rispettivi in superficie, ma in maniera abbrutita e senza alcuna finalità, anche perché privi degli oggetti che danno a quei gesti un senso. A proposito, nella scena introduttiva, tra gli oggetti compare anche una videocassetta del film C.H.U.D. (Cheek 1984), horror che aveva come protagonisti mostri del sottosuolo.
La Santa Cruz delle ultime sequenze è città di mare deserta che non può non far pensare alla madre di tutte le città di mare deserte in un horror, ovviamente la Bodega Bay de Gli uccelli (1963), e la catena umana in lontananza nel totale silenzio non è molto diversa dalla massa di volatili che riempiono l'inquadratura del capolavoro di Hitchcock. Allora gli uccelli impazzivano contro l'uomo, qui gli emarginati manifestano, si ribellano, dopo una vita passata nell'ombra, in un'evidente allegoria di rivolta sociale.
Dal punto di vista visivo, l'arrivo di Gabe, Addy e dei bambini in spiaggia è tra le immagini più notevoli dell'intero film: la mdp li guarda dall'alto ed evidenzia le loro ombre proiettate sulla sabbia... sì, ancora ombre.
Jacques Tourneur, forse il più grande cineasta horror anni '40, era noto come il maestro delle ombre, Jordan Peele a quelle ombre ha dato consistenza, sostanza drammaturgica e valenza sociale e politica!

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