È l'opera prima di Jordan Peele, la pellicola che gli ha dato la ribalta e lo ha di diritto inserito tra i maestri horror dell'ultima generazione, un ruolo ampiamente confermato dal secondo film, l'ottimo Noi (2019).
La premessa è da cinema horror anni '70-'80, con una tensione e un'ambientazione notturna apparentemente slegata dalla narrazione principale, e che infatti stride con la realtà del giorno dopo, con la coppia di protagonisti che vive una serena quotidianità.
La divertente musica di Run Rabbit Run (Noel Gay-Ralph Butler 1939), della sequenza iniziale, dà inizio anche alla bella colonna sonora di Michael Abels (ascolta), che più avanti si arricchisce di violini dissonanti e atmosfera gotica. È curioso, peraltro, che il brano del 1939 divenne un tormentone inglese durante la Seconda guerra mondiale, quando i cantanti Flanagan e Allen, per prendere in giro i nemici tedeschi, sostituirono a Rabbit il nome Adolf...
Il tema del razzismo e quello della visione (Chris è un fotografo) rendono la pellicola di Peele un'interessantissima opera prima. L'arrivo dei due ragazzi nell'isolata casa di campagna degli Armitage, non a caso, viene inquadrato da lontano, senza permettere allo spettatore di avvicinarsi, colto dal punto dal giardiniere, l'afroamericano Walter. Anche la domestica, Georgina (Betty Gabriel), è nera, e la sua aria assente rende Chris sospettoso, e i sospetti aumentano con l'arrivo del fratello di Rose, Jeremy (Caleb Landry Jones), ubriaco già prima di cena, e ancora di più una volta che i padroni di casa rivelano i propri mestieri, Dean Armitage (Bradley Whitford) è un neurochirurgo, Missy (Catherine Keener) un'affermata psichiatra ipnoterapeuta.
Chris e Rose, senza saperlo (?), sono a casa degli Armitage nella domenica in cui si celebra l'anniversario della morte del nonno e, tra i tanti invitati bianchi, c'è un ragazzo nero, Logan (Lakeith Stanfield), anche lui apparentemente sedato o ipnotizzato, ma che incrociando con lo sguardo il flash della macchina fotografica di Chris (ancora una volta l'importanza della visione), cambia atteggiamento per quello che viene letto come un attacco di epilessia, durante il quale, però, dice a Chris lo "scappa" ("get out") che dà il titolo al film.
Un film in cui tutti sembrano avere due identità - anche Logan immaginatelo coi baffi e pensate se vi ricorda qualcuno - e nel quale si aggrovigliano complotti, come evidenzia l'esistenza di un progetto Coagula, mostrato a Chris attraverso una videocassetta che gli rivela l'origine di quanto sta vivendo e che sembra fare il verso al progetto Dharma della fortunata serie tv Lost (2004-10). Anche la dimensione reale, d'altronde, ha due identità grazie all'ipnosi, cosicché Chris è prigioniero del "mondo sommerso", un tema caro a Peele, che nel suo secondo lungometraggio darà ancora più spazio ad una seconda dimensione che assumerà un ruolo determinante.
Tutto appare molto lineare, e in effetti Peele non rende intricata la trama, il suo horror lascia in superficie quello che ci aspetteremmo di dover scoprire, e punta ad altri obiettivi. L'ironia è una componente fondamentale, a partire dal soggetto: a ben guardare Get Out è la versione horror del famosissimo Indovina chi viene a cena (Kramer 1967), in cui Katharine Houghton portava Sideny Poitier a cena dai suoi, gli ingombranti Christina (Katherine Hepburn) e Matt Drayton (Spencer Tracy).
L'ironia attraversa tutto il film: Chris in diversi momenti parla a telefono col suo amico Rod (Lil Rel Howery), nerd affascinato da Rose, che di fatto interpreta il ruolo dello spettatore. Il ragazzo non si fida del fine settimana che l'amico ha scelto di passare in un posto così isolato, ipotizza le stesse teorie di chi è davanti allo schermo, ma le interpreta in chiave sessuale, ossessionato da qualcosa a lui evidentemente ignoto.
Un film in cui tutti sembrano avere due identità - anche Logan immaginatelo coi baffi e pensate se vi ricorda qualcuno - e nel quale si aggrovigliano complotti, come evidenzia l'esistenza di un progetto Coagula, mostrato a Chris attraverso una videocassetta che gli rivela l'origine di quanto sta vivendo e che sembra fare il verso al progetto Dharma della fortunata serie tv Lost (2004-10). Anche la dimensione reale, d'altronde, ha due identità grazie all'ipnosi, cosicché Chris è prigioniero del "mondo sommerso", un tema caro a Peele, che nel suo secondo lungometraggio darà ancora più spazio ad una seconda dimensione che assumerà un ruolo determinante.
Tutto appare molto lineare, e in effetti Peele non rende intricata la trama, il suo horror lascia in superficie quello che ci aspetteremmo di dover scoprire, e punta ad altri obiettivi. L'ironia è una componente fondamentale, a partire dal soggetto: a ben guardare Get Out è la versione horror del famosissimo Indovina chi viene a cena (Kramer 1967), in cui Katharine Houghton portava Sideny Poitier a cena dai suoi, gli ingombranti Christina (Katherine Hepburn) e Matt Drayton (Spencer Tracy).
L'ironia attraversa tutto il film: Chris in diversi momenti parla a telefono col suo amico Rod (Lil Rel Howery), nerd affascinato da Rose, che di fatto interpreta il ruolo dello spettatore. Il ragazzo non si fida del fine settimana che l'amico ha scelto di passare in un posto così isolato, ipotizza le stesse teorie di chi è davanti allo schermo, ma le interpreta in chiave sessuale, ossessionato da qualcosa a lui evidentemente ignoto.
Lo stesso Chris, che denuncia alla polizia quella che ormai è un'evidenza per lui e per noi, non ottiene altro che le risate compiaciute degli agenti che lo considerano un mitomane.
E, per chiudere, con l'intelligente ironia della sceneggiatura scritta dallo stesso Peele (Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2018), questa si fonde al tema portante della visione, che è sempre anche allegoria del cinema tout court, quando tra gli invitati alla festa un gallerista d'arte cieco dichiara che prima di perdere la vista "non avevo occhio". La stessa ipnosi, d'altronde, sfrutta l'attenzione dello sguardo e il motivo del cucchiaino da caffè che gira nella tazzina è uno dei leitmotiv della pellicola.
La visione, nella sua ambiguità, sarà decisiva anche nel finale: tutto è interpretabile e tutto ciò che dall'inizio del film era evidente può improvvisamente essere ribaltato da un'errata percezione di chi a quella vicenda si avvicina solo ora...
E, per chiudere, con l'intelligente ironia della sceneggiatura scritta dallo stesso Peele (Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2018), questa si fonde al tema portante della visione, che è sempre anche allegoria del cinema tout court, quando tra gli invitati alla festa un gallerista d'arte cieco dichiara che prima di perdere la vista "non avevo occhio". La stessa ipnosi, d'altronde, sfrutta l'attenzione dello sguardo e il motivo del cucchiaino da caffè che gira nella tazzina è uno dei leitmotiv della pellicola.
La visione, nella sua ambiguità, sarà decisiva anche nel finale: tutto è interpretabile e tutto ciò che dall'inizio del film era evidente può improvvisamente essere ribaltato da un'errata percezione di chi a quella vicenda si avvicina solo ora...
Nessun commento:
Posta un commento