lunedì 4 giugno 2018

1945 (Török 2017)

Film bellissimo, ma che in Italia, almeno sul grande schermo, è stato difficile vedere, per le poche sale che lo hanno proiettato.
Tratta dal racconto dello scrittore Gábor T. Szántó intitolato Homecoming, la pellicola di Ferenc Török è incentrata su uno strisciante e incontenibile antisemitismo che caratterizza i meccanismi psicologici degli abitanti di un piccolo e anonimo villaggio ungherese. Qui, ed è questa la grande novità narrativa del film, il genocidio non è il presente, ma solo un ricordo ingombrante. Per questo l'arrivo di due ebrei, un anziano e un ragazzo ben riconoscibili dagli abiti ortodossi, un padre e un figlio (Iván Angelusz e Marcell Nagy) che un tempo abitavano lì e che ora camminano silenziosamente dietro ad un carro che trasporta due misteriosi bauli, accresce la preoccupazione dell'intera comunità colpevole di collaborazionismo, un sentimento che in breve tempo si trasformerà in isteria collettiva.
Alla coinvolgente storia, fedelmente dettagliata - la direzione artistica è di Dorka Kiss, già fondamentale per Il figlio di Saul, Nemes 2015 -, alla perfetta regia e alle impeccabili prove degli attori, si aggiungano lo splendido bianco e nero della fotografia di Elemér Ragályi e la musica dagli accenti orientali di Tibor Szemzö, che accompagnano lo spettatore contribuendo in maniera determinante al suo rapimento estetico.

Vincitore di numerosi premi, tra cui quello della Critica Cinematografica Ungherese (2018), e ovviamente altri relativi al cinema ebraico, come l'Avner Shalev Yad Vashem Chairman’s Award o la miglior regia al Berlin Jewish Film Festival (2017), il film è ambientato negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, ma del conflitto non c'è praticamente traccia. A parlarne è solamente la "voce" intradiegetica di una radio, che all'inizio della storia rivela che siamo nel giorno dello sgancio della bomba atomica su Nagasaki. Siamo quindi al 9 agosto 1945, e tutto si svolgerà in poche ore, dalla mattina al primo pomeriggio, in una rigorosissima unità di tempo. 
In un bar il giovane bracciante Jancsi (Tamás Szabó Kimmel) vagheggia un futuro "mondo nuovo", chiaro riferimento al comunismo sovietico cui allude la stessa presenza di qualche soldato russo sul territorio, ma gli fa eco il disaccordo del commerciante e guida del paese Istvan (Péter Rudolf): "non è per noi ungheresi". Quest'ultimo è indaffarato perché la sera di quello stesso giorno suo figlio, Arpad (Bence Tasnádi), sposerà la bella Rozsi (Dóra Sztarenki), nata da una famiglia contadina e ancora innamorata di Jancsi, appartenente alla sua stessa classe sociale. Il dettaglio non sfugge alla futura suocera, convinta che la ragazza abbia accettato di sposare il figlio solo perché interessata alla stabilità economica garantita dalla drogheria, un'ipotesi che la stessa Rozsi non è in grado di smentire, limitandosi ad un eloquente "col tempo l'amerò".
È questa la situazione del villaggio all'arrivo in stazione di due ebrei che, secondo molti, portano con sé "profumi e roba per donne", e alla cui vista il commento di un gendarme la dice lunga sui sentimenti antisemiti della popolazione: "questi sopravvivono a tutto!" Il timore dell'intera comunità, infatti, è la possibilità del ritorno della famiglia Pollak, i cui membri sono stati deportati tempo prima, lasciando liberi gli abitanti del paese di impossessarsi delle loro proprietà, a cui ora non vogliono rinunciare per nessuna ragione al mondo...

La regia è di alto profilo, e basterebbe a dimostrarlo una delle prime inquadrature relative al carro dietro al quale camminano i due ebrei, mutuata dal genere western: la mdp è posizionata al livello della strada, in un punto equidistante tra le ruote del carro, dove vediamo una lampada ciondolante che copre alternativamente i due personaggi.
La caratterizzazione da film western si percepisce anche quando la mdp indugia ad osservare la scena da dietro le finestre, le staccionate, ecc. con soggettive che aumentano il pathos della vicenda.
Tra queste inquadrature, inoltre, le più simboliche sono naturalmente quella riprese in soggettiva dalle ringhiere con il motivo della stella di David, segno tangibile della presenza della cultura ebraica nel paese. Tutti spiano dall'interno delle loro case o dei propri esercizi commerciali il silenzioso corteo che attraversa il villaggio, e tutto contribuisce a renderlo misterioso, anche perché la mancata conoscenza per definizione amplifica la paura e la tensione.
Proprio l'ignoto, da intendere come ignoranza nel senso più stretto del termine, e il carro che avanza senza alcuna spiegazione per tutto il film, permette di associare 1945Due uomini e un armadio, il celebre cortometraggio con cui Roman Polanski, nel 1958, proponeva una magnifica allegoria dell'intolleranza razziale, che si rivolgeva ai due protagonisti che avevano come unico torto quello di essere fuori dagli schemi, incomprensibile ai più, un modo di essere che il maestro franco-polacco sintetizzava appunto con la costante immagine di un armadio trasportato per le strade della città. E così, come i personaggi di Polanski comparivano dal nulla e tornavano nel nulla rappresentato dal mare, anche quelli di Török compiono un percorso circolare che coincide con il tempo dell'azione cinematografica: giungono dall'esterno del villaggio e, allo stesso modo, in quello spazio indeterminato e indefinito, ci torneranno nel finale.
Sull'intera storia aleggiano i sensi di colpa che però non sono sufficienti a cambiare le cose, anzi... Rozsi, scoperta dalla suocera, non rinuncerà al matrimonio, finché non sarà il suo promesso a sposo a farlo; i membri del villaggio, colpevoli di aver denunciato i Pollak per farli deportare, sono consapevoli di essersi accaparrati un patrimonio a cui non avevano diritto, ma non vogliono rinunciare a quanto indebitamente acquisito e, atterriti, da un loro possibile ritorno, nascondono tappeti, stoviglie, argenteria e altri oggetti di valore sapendo già che, in caso di domande, diranno che tedeschi o russi hanno preso tutto.
Un personaggio più degli altri, Kustar, detto Bandi (József Szarvas), è attanagliato dai sensi di colpa al punto da cercare un po' di pace nell'alcol o nel confessionale della chiesa, ma non basterà né questo, né tantomeno la reprimenda di Istvan, la cui coscienza è totalmente immune a qualunque cedimento e, persino quando sua moglie (Eszter Nagy-Kálózy) lo accusa di essere un assassino, non dà segni di pentimento continuando biecamente a perseguire il proprio obiettivo di difensore della comunità ungherese del villaggio.
A fare da contrasto a questi comportamenti uno dei momenti più poetici del film: l'arrivo dei due ebrei al piccolo cimitero ebraico del paese, dove seppelliscono gli oggetti personali di due bambini defunti. La mdp riprende con lentezza le scarpe, i trenini giocattolo, i libri, la menorah, il rotolo della torah adagiati sui teli, e restituisce una silenziosa ritualità fatta di piccoli gesti come quello di strappare ciuffi d'erba e lanciarli dietro le proprie spalle o sciacquarsi le mani.
Nella simbologia delle immagini si evidenzia gran parte della bellezza del commovente film di Török, e proprio per questo non possono mancare il fuoco e l'acqua, entrambi come elementi purificatori e catartici tipici dell'intervento diretto del Dio giudice e dal potere punitivo della torah o, se si preferisce, dell'Antico Testamento.
Il primo invade la scena con un incendio doloso e liberatorio che tra i tanti della storia del cinema, di primo acchito, ricorda quello appiccato da Shosanna Dreyfus-Mélanie Laurent in Bastardi senza gloria (Tarantino 2009); la seconda è data dal diluvio successivo che spegne le fiamme e bagna tutto il circondario del villaggio. Da qui, nel frattempo, i due ebrei si allontanano prendendo un treno che partendo lascia un fumo nero che significativamente si dirige verso il paese, segnato per sempre da quanto è successo.
Capolavoro. Toccante, tagliente, senza tempo, necessario.

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