Ed ecco servito un thriller psicologico, dalla struttura ossessivamente circolare, in grado di scandagliare l'essenza del lavoro di uno scrittore, la crisi d'ispirazione, il panico da pagina bianca, la ricerca del soggetto tra finzione e realtà, tematiche che inevitabilmente vanno a sovrapporsi all'analogo lavoro del regista, tanto più se ricco di ansie e fantasmi, come nel caso di Polanski, conferendo al film degli evidenti accenti autobiografici.
Quello che non so di lei, titolo italiano che occhieggia inutilmente a Godard, in luogo del titolo originale D'après une historie vrai, è tratto dall'omonimo romanzo di Delphine de Vigan (2015), che il regista adatta in una storia perfetta per le sue corde, tra sogno e realtà, in quello spazio ambiguo in cui lo spettatore polanskiano alberga dai primi corti degli anni '50 fino ai tanti capolavori dei decenni successivi, da Repulsion a Rosemary's Baby, da L'inquilino del terzo piano a La morte e la fanciulla, e molti altri.
Delphine non è affatto a suo agio con il successo raggiunto e non mostra mai la felicità che ci si aspetterebbe: è in affanno mentre firma dediche sul suo libro (il film inizia con una soggettiva della romanziera seduta ad una scrivania che guarda i suoi lettori che uno ad uno le portano il volume da vergare); è condotta forzatamente alla festa per l'uscita del libro, da cui va via appena può, non prima di aver ballato senza alcuna voglia con il suo editore italiano Bartolini; non scrive da tempo, ma da lei ci si aspetta a breve un nuovo romanzo; conduce una vita disordinata in cui non riesce a tener testa ai tanti impegni che, oltre la scrittura, la vedrebbero coinvolta in presentazioni, lezioni, interviste, conferenze; riceve lettere anonime che la condannano per aver tratto ispirazione per il suo ultimo romanzo da storie dei parenti ("ti sei venduta la famiglia cambiando qualche nome").
Rimasta vedova da anni, i suoi figli, ormai grandi, sono lontani, e l'unica ancora delle sue giornate sembra essere il compagno François, un giornalista letterario, che la ama e prova a starle vicino per quanto possa, e con il quale ha una relazione che non prevede la convivenza: Delphine ha paura dei compromessi e della routine, cosicché "lui ha la sua vita e io ho la mia".
In questo momento della sua vita avviene l'incontro di Delphine con Lei, che vede per la prima volta tra i suoi fan che le chiedono la dedica e subito dopo al party letterario. Nascerà un'amicizia tra le due, in cui la presenza di Lei da discreta e in punta di piedi sulle prime, diventerà invadente e ingombrante.
Lei si trasformerà in breve tempo in un'assistente risolvi-problemi di cui Delphine non può fare a meno, in una relazione che può essere paragonata a quella di Sils Maria e Personal shopper, non a caso gli ultimi due film di Olivier Assayas.
La giovane e sempre bellissima Leila-Elizabeth ("come fai a essere così bella anche al mattino?" le chiede Delphine durante una colazione) sin da subito, però, si rivela essere una fan con un'attenzione morbosa per la vita di Delphine: è preoccupata per il successo improvviso ("lei è a rischio esaurimento"), al primo appuntamento le chiede di mostrarle i quaderni in cui conserva gli appunti per i suoi romanzi e, poco dopo, occupa un appartamento nel palazzo di fronte l'oggetto del suo fanatismo (La finestra sul cortile - Hitchcock 1954 - è ad un passo). In breve tempo la inviterà anche per una cena di compleanno a casa, dove la tavola è inutilmente apparecchiata per otto persone, poiché nessuno degli altri invitati si unirà a loro.
Delphine la lascia fare, poiché in fondo è affascinata da una persona che la sa ascoltare così attentamente, e non manca di farlo notare a François, spesso poco attento ai suoi bisogni. Lei, vedova come Delphine, ma senza figli ("non è un rimpianto"), ben presto prenderà la guida della vita della scrittrice in crisi d'identità, rispondendo alle sue mail, mettendola in guardia dai rischi dei social, su cui "è molto più facile credere alla calunnia che alla verità", o persino proponendole di sostituirla per andare a fare una lezione a Tours al suo posto. La conseguenza trasformazione culminerà con l'uscita dal bagno della ragazza con la nuova acconciatura, palese citazione della Judy-Madeleine interpretata da Kim Novak in Vertigo (Hitchcock 1958).
Tutto è sempre liminale in Polanski: la realtà si fonde con l'immaginazione e il sogno, ma poi la scene oniriche arrivano davvero, come quella in cui Delphine sogna una donna (la madre?), la stessa che compare sulla copertina del suo ultimo romanzo e il cui ricordo è evidentemente il soggetto del libro stesso, nonché causa delle sue ansie (vede una sua foto ingrandita ad una mostra e chiede a François di andare via). Nel sogno la donna, significativamente seduta alla sua scrivania, chiude il computer della figlia e lo lancia fuori dalla finestra fracassando i vetri dell'appartamento occupato da Lei.
La nuova amica e assistente di Delphine, che non a caso chiama "pazienti" anche i personaggi per cui scrive le autobiografie da ghost writer, si pone anche come psicologa e motivatrice: rispetto alle sue insicurezze sottolinea che "come ti vedi tu e come ti vedono gli altri sono due cose diverse", ma soprattutto ripete insistentemente alla sua assistita la necessità di scrivere quello che lei chiama il "libro nascosto", un romanzo profondamente personale che affondi le radici nei tanti diari accumulati per quindici anni, dall'infanzia alla nascita del primo figlio. Una conferma a tutto questo è anche nelle letture di Lei, che vediamo con in mano una copia de La Mélancolie des innocents (Milovanoff 2002), opera in cui viene affrontato il tema dell'ispirazione, dei ricordi da collezionare, di un personaggio che ama raccontare e di un altro che sa ascoltare...
Eppure il disagio e lo stordimento di Delphine, nonostante la collaborazione di Lei, aumentano col passare del tempo, fino a quando, perdendo l'equilibrio sulle scale, si procurerà la frattura di una gamba (come Jeff-Jimmy Stewart in La finestra sul cortile), e peggioreranno quando, dopo un breve periodo di rottura, le due donne decideranno di ritirarsi per lavorare nella casa di campagna di François. Il rapporto morboso tra fan e scrittrice, non troppo distante da quello divenuto cult grazie a Stephen King e alla trasposizione cinematografica di Bob Reiner in Misery non deve morire (1990), permette a Eva Green di dare il meglio di sé, con gli occhi spiritati e quell'aria glaciale da strega cattiva (è stata lei la Grimilde di Biancaneve e il cacciatore, Sanders 2012): "mi occupo di tutto io", "solo io so chi sei e cosa puoi scrivere", "che tu lo voglia o no sei responsabile dell'amore che hai suscitato" sono solo alcune delle battute di Lei rivolge a Delphine palesando il suo crescente bisogno di controllo.
Lo stato di coscienza sempre più alterato di Delphine, invece, fa pensare ancora a Hitchcock e alla Elena-Ingrid Bergman di Notorious, ma non solo, perché naturalmente è ancora più diretto il rimando al polanskiano Rosemary's Baby (1968), con il volto di Emmanuelle Seigner che si trasfigura come accadeva a quello di Mia Farrow e, come allora, non sappiamo più cos'è reale e cos'è frutto dell'immaginazione del protagonista....
La verità è finzione, i fantasmi sono più veri dei personaggi in carne ed ossa, Polanski è sempre Polanski!
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